Ricorderete commentatori ed esperti che ci spiegavano, e ci spiegano tuttora,
come le piattaforme
social abbiano tutto il diritto di bannare e censurare secondo le loro
policy,
essendo compagnie private separate dai governi.
Quanto emerge da queste email dimostra che al contrario sono colluse con i governi al fine di controllare e censurare il discorso pubblico.
La rivelazione di Zuckerberg
Ma un’altra notizia clamorosa nei giorni scorsi è passata praticamente sotto silenzio.
Ricorderete, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali del 2020,
lo scoop del
New York Post sul laptop di
Hunter Biden,
il figlio del presidente e dell’allora candidato alla Casa Bianca
Joe Biden.
I media
liberal oscurarono la notizia, bollandola come
disinformazione russa – accusa che oggi sappiamo essere falsa –
ma anche i
social media la oscurarono e addirittura
Twitter arrivò a bannare il profilo del
New York Post,
uno dei maggiori quotidiani del Paese, impedendo totalmente la condivisione dell’articolo.
Ebbene, durante la puntata del 25 agosto del podcast di Joe Rogan, il fondatore e ceo di Facebook,
Mark Zuckerberg, ha rivelato che fu l’FBI a spingere i social a censurare la storia del laptop di Hunter Biden.
Quando gli è stato chiesto da Rogan come
Facebook gestisce le notizie controverse,
come appunto la storia del laptop a pochi giorni dal voto,
Zuckerberg ha interrotto il suo host per fornire un retroscena della decisione del
social di limitare la circolazione della storia.
“L’FBI fondamentalmente è venuta da noi, alcune persone della nostra squadra, [dicendo]: ‘Ehi, solo perché lo sappiate, dovreste stare in allerta… Pensavamo che ci fosse molta propaganda russa nelle elezioni del 2016, abbiamo notato che fondamentalmente sta per esserci una specie di schifezza simile a quella, quindi siate vigili'”.
E Zuckerberg ha aggunto:
“Ehi, guarda, se l’FBI – che considero ancora un’istituzione legittima in questo Paese, forze dell’ordine molto professionali – viene da noi e ci dice che dobbiamo stare in guardia su qualcosa, voglio prenderla sul serio”.
Quindi, quando il
New York Post ha pubblicato la storia del laptop di
Hunter Biden, il 14 ottobre 2020,
Facebook ha trattato la storia come “potenzialmente disinformazione, disinformazione importante” per cinque o sette giorni.
E durante quel periodo ha ridotto la circolazione della storia.
“Potevi ancora condividerla, potevi ancora consumarla”, ha spiegato Zuckerberg,
ma
“meno persone l’hanno vista di quante l’avrebbero fatto altrimenti”.
E anche se non ha quantificato l’impatto, ha affermato che la riduzione della circolazione fu “significativa”.
Addirittura, come abbiamo ricordato,
Twitter bannò il profilo del
New York Post,
bloccò quello della Campagna Trump per impedirgli di parlarne e
censurò totalmente l’articolo,
impedendo che fosse rilanciato, presumibilmente avendo ricevuto lo stesso
warning dall’FBI.
Sarebbe interessante sapere quali altri media, nuovi o tradizionali, abbiano ricevuto tale avviso.
Rogan gli ha quindi chiesto se l’FBI avesse espressamente avvertito “di stare in guardia su quella storia”.
Dopo aver inizialmente risposto “no”, Zuckerberg si è corretto dicendo:
“Non ricordo se fosse specificamente quello, ma sostanzialmente si adattava allo schema“.
Che l’FBI si riferisse o meno alla storia del laptop di
Hunter Biden è a questo punto irrilevante
perché l’avvertimento arrivato a
Facebook (ma probabilmente ad altri
social e media tradizionali)
fu abbastanza specifico da
indurre la piattaforma a censurare lo scoop del
New York Post.
La disinformazione dell’FBI
Il problema è che in tutta questa vicenda la disinformazione – e l’ingerenza nelle elezioni – non è stata quella russa, ma quella dell’FBI.
Contrariamente al falso allarme lanciato al team di Facebook (e presumibilmente agli altri media),
infatti, la storia del laptop non era disinformazione russa, ma una storia vera e devastante per Joe Biden,
perché mostrava come avesse mentito al pubblico americano quando nel settembre del 2019 affermò di non aver mai discusso degli affari di suo figlio all’estero.
Al di là di foto e video che mostrano il figlio del presidente assumere droghe e in compagnia di prostitute,
le informazioni contenute nel laptop coinvolgevano l’allora candidato Dem in
uno scandalo pay-to-play con Russia, Ucraina e Cina.
L’FBI ha quindi potenzialmente interferito con le elezioni presidenziali del 2020.