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Egregio On. Matteo Orfini,

.....in tema di ordine pubblico la informo, che la polizia e i poliziotti prima di qualsiasi intervento ove è possibile l’uso della forza,
si sforza con ogni mezzo e il buon senso di cercare sempre il dialogo con i manifestanti qualsiasi estrazione politica o nazionalità abbiano.

Considerato che la Polizia rende alla collettività, attraverso il mantenimento dell’ordine pubblico,
un servizio che si rivela come l’indicatore della qualità democratica del Paese e della sensibilità civile del suo sistema politico di governo,
funzione in cui risiede l’essenza stessa della nostra democrazia, che pretende il giusto contemperamento di libertà e legalità,
cioè il diritto di manifestare liberamente il proprio dissenso nel rispetto delle libertà consacrate nel testo costituzionale.

Ma ahimè da tempo siamo in una fase della nostra storia, ove il vuoto culturale e ideologico ha svuotato di contenuto e valore molte cose,
inaridendo l’idea della rappresentanza politica, in mancanza di una nuova e rinnovata identità culturale,
alcuni partiti come nel caso del Pd e di tutti coloro i quali si sentono gli eredi della sinistra “storica”
stanno vivendo la crisi più profonda della loro storia politica, avendo perso il mordente e la funzione originaria,
la capacità di rappresentanza e proposta, così come la mediazione con le diverse componenti del corpo sociale,
compresi i lavoratori in uniforme dei comparti sicurezza, difesa e soccorso pubblico.

La crisi della sinistra e del sistema politico è la crisi del paese, che ha bisogno di crescere e rinnovarsi,
emancipazione e libertà non possono essere malintesi vessilli di alcune questioni meritevoli di soluzioni
ma non possono essere esclusive o mono tematiche sul piano delle priorità politiche.

Voi non avete mai voluto considerare il tema sicurezza come vostro,
tranne casi eccezionali e individuali tra gli esponenti del vostro partito,
ma sul piano politico lo avete sempre respinto non considerandolo vostro,
come se il tempo immutabile si fosse fermato alla polizia di Scelba e
dei moti bracciantili repressi con la forza da polizia e carabinieri nel meridione d’Italia.

In estrema sintesi, la miopia elitaria del suo partito ha consegnato alle destre le politiche della sicurezza
e di conseguenza le simpatie di tutti i cittadini e degli operatori che ne hanno subito i disagi,
alcuni dei quali sono figli di tolleranze ideologiche superate dalla storia e svincolate dalla realtà,
tanto che molti dei cittadini da sempre a sinistra non vi votano più.

Mi permetto di evidenziarle, aspetto che non sfugge a nessuno,
che il tema sicurezza entra nell’agenda degli esponenti del Pd solo dopo,
che per la prima volta nella storia della Repubblica la destra è al Governo,
certo non mi sfugge che l’argomento è un utile clava per la lotta politica, specie in questa fase.


Le rammento che il segretario Letta

non una sola volta ha citato il tema nella campagna elettorale,

e nel corso della sua fallimentare segreteria

si è interrotto bruscamente il dialogo tra il partito

e gli esponenti del personale del comparto sicurezza,

evidentemente per alcuni la legalità in questo paese ha due pesi e due misure,

assecondo di chi è preposto ad esercitarla, salvaguardarla o applicarla.
 
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Oggi centinaia di documenti del governo degli Stati Uniti,

in parte ottenuti tramite fuga di notizie dall’interno di agenzie federali,

in parte declassificati nel corso di una causa per violazione dei diritti costituzionali

intentata contro l’amministrazione Biden dallo Stato del Missuori tramite il suo procuratore generale Eric Schmitt,

e riassunti in un reportage-inchiesta di The Intercept a firma Ken Klippenstein e Lee Fang,

gettano una nuova e sinistra luce su quanto accaduto negli ultimi anni nel mondo della lotta alle “fake news”.



Emerge ora, oltre ogni dubbio, che le grandi piattaforme social media del Big Tech
hanno avuto per anni quella che The Intercept descrive una relazione “molto intima”
con il Federal Bureau of Investigation e il Department of Homeland Security.

Una relazione in cui industria privata e governo federale

collaborano su base regolare per censurare notizie giudicate pericolose,

ma molto spesso solo sgradite alla politica, classificandole come “disinformazione”.



Quanto è “intima” questa relazione?

In uno scambio di messaggi di testo con un alto funzionario della Homeland Security,
Matt Masterson, ceo di Microsoft, raccomandava che “le piattaforme devono mettersi a proprio agio col governo”.
 
Vijaya Gadde, il “grande censore” di Twitter, ora messa alla porta da Elon Musk,

una persona nota per essersi vantata di aver dato il via alla soppressione della storia del laptop di Hunter Biden

sospendendo l’account del quotidiano New York Post durante le elezioni presidenziali americane del 2020

e per avere, infine, messo al bando Donald Trump,

si incontrava mensilmente con il DHS per discutere come meglio censurare notizie considerate dannose per le politiche governative.



Di fatto, Gadde ha fatto parte della commissione di esperti che ha suggerito al DHS quali misure anti-disinformazione attuare,
e sembra aver avuto interesse ad ampliare tali misure su scala globale,
come rivelato da lei stessa in una videoconferenza ottenuta dall’organizzazione di giornalismo investigativo Project Veritas.


E Gadde non è un caso isolato.

Nei mesi precedenti l’elezione presidenziale del 2020 compagnie del Big Tech
– incluse Twitter, Facebook, Reddit, Discord, Wikipedia, Microsoft, LinkedIn e Verizon Media
si sono incontrate mensilmente con l’FBI e il DHS per discutere di come prevenire il diffondersi di “disinformazione” durante il periodo di campagna elettorale.


Facebook e Twitter crearono addirittura dei portali speciali
attraverso i quali impiegati del governo potessero rapidamente richiedere la soppressione di contenuti.
 
Nella sua apparizione dell’agosto scorso nel popolare podcast The Joe Rogan Experience, il ceo di Facebook, ora Meta,
Mark Zuckerberg ha rivelato che fu l’FBI a contattare Facebook chiedendogli di sopprimere la storia del laptop di Hunter Biden.

A detta di Zuckerberg l’FBI giustificò la richiesta dicendo che la storia era “disinformazione russa”.

Questa era anche la versione diffusa dalla stampa mainstream, che naturalmente
, a differenza del New York Post, non subì nessun genere di censura da parte di Twitter e Facebook.

È in seguito stato confermato che la storia era vera.

L’FBI stava investigando diversi sospetti contatti d’affari di Hunter Biden, figlio di Joe,
secondo molti indizi contenuti nel laptop, nonché per il suo ex socio d’affari Tony Bobulinsky,
in realtà suo prestanome, con compagnie energetiche cinesi, russe, ucraine, e kazake.


L’FBI perciò, pur avendo Hunter Biden sotto indagine, si premurò di cooperare con Twitter e Facebook
perché non si venisse a sapere nel mezzo dell’elezione, marchiando la notizia come “disinformazione”,
e così facendo trasformando una notizia vera in una falsa.

Un vero e proprio cortocircuito degno di George Orwell.


Secondo The Intercept, a occuparsi di far sparire dai social media gli “Hunter Files” fu l’agente dell’FBI Laura Dehmlow,
che ancora quest’anno si è incontrata con Twitter e JPMorgan Chase
per raccomandare che “occorre una infrastruttura mediatica che possiamo hold accountable (richiamare all’ordine)”.


Da notare che Twitter è una piattaforma social, ma JPMorgan Chase è una banca.

Perché l’FBI discute di “disinformazione” con una banca?


La risposta che temiamo tutti è che si voglia passare dal “combattere la disinformazione” sui social

a combatterla nei conti correnti, tramite l’esclusione dei disobbedienti dai servizi finanziari.
 
Ma la campagna elettorale non era l’unico obiettivo degli sforzi combinati di governo federale americano e Big Tech.

Oltre alle elezioni, tra gli altri soggetti sottoposti a scrutinio come “disinformazione”
ci sarebbero questioni di salute pubblica (le origini della pandemia di Covid-19 e l’efficacia dei vaccini)
,
temi ideologici (“racial justice”), debacle politiche (il caotico ritiro delle forze Usa dall’Afghanistan),
e la politica estera (la natura del supporto americano all’Ucraina).


Non bisogna fare un grande sforzo per vedere che queste sono tutte cose che in democrazia fanno parte del dibattito pubblico,
e quanto sia specioso e pericoloso che le informazioni e relative discussioni che vi ruotano intorno
siano alla mercé di un cartello tra governo e monopolisti dell’informazione,
operanti sulla base di termini elastici come “disinformazione”.

Peggio ancora quando questo cartello si schiera apertamente da una delle due parti in una elezione.


Il rapporto de The Intercept include anche un’intervista ad un anonimo agente dell’FBI
che rivela di essere stato riassegnato dal suo usuale compito di tenere sotto controllo agenzie di intelligence straniere
ad un progetto di monitoraggio di account social media americani durante l’Estate delle Rivolte del 2020.


“Ci sono sempre più indizi che funzionari dei poteri esecutivo e legislativo
stiano usando le compagnie di social media come un surrogato per la censura
– scrive il professore di diritto della George Washington University Jonathan Turley citato da The Intercept
“È indiscutibile che il governo non può fare indirettamente ciò che gli è proibito di fare direttamente”.


Eh sì, perché negli ultimi anni, di fronte alla smaccata e discriminatoria censura delle informazioni su social media,
siti web, o motori di ricerca che fossero, da parte del Big Tech, il ritornello è spesso stato:

“Le compagnie private possono fare quello che vogliono”.

Ma adesso salta fuori che queste compagnie private starebbero effettivamente operando come proxy del governo,

come compagnie militari private in zona di guerra.


“Se funzionari del governo stanno dirigendo questa censura, – continua Turley- entra in ballo il Primo Emendamento”.
 

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