Sharnin 2
Forumer storico
Perché vince il modello cinese
18 ago 2010
di ALFONSO TUOR
La notizia che quest’anno l’economia cinese supererà per grandezza quella giapponese e assurgerà al rango di seconda potenza economica mondiale, sopravanzata unicamente dagli Stati Uniti, ha occupato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Eppure la notizia in sé e per sé non è rilevante. Infatti già da alcuni anni la Cina occupa il secondo rango in base a una classifica fondata sulla parità dei poteri d’acquisto stilata dal Fondo Monertario Internazionale, ma il reddito pro capite dei cinesi è ancora circa un decimo di quello dei giapponesi. Molto più importante è il fatto che l’area comprendente i Paesi del Sud-Est asiatico riuniti nell’ASEAN, Taiwan, Corea del Sud, Giappone e Cina, che ha dimensioni paragonabili a quelle dell’economia americana e di quella europea, non solo sta diventando sempre più integrata grazie a scambi commerciali più intensi, ma anche più dipendente dal crescente peso della Cina. Tra i principali fattori di successo della Cina vi è stato indubbiamente la capacità di Pechino, da un canto, di sfruttare appieno le potenzialità che offriva il processo di globalizzazione condotto a livello commerciale sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e, dall’altro, di contribuire a creare e a sviluppare un mercato continentale asiatico, che prima per motivi politici non era mai esistito. E questo mercato, che comprende anche l’India, è oggi quello più dinamico e con le migliori prospettive.
In questa sede non vogliamo addentrarci nelle previsioni, ad esempio della Goldman Sachs, secondo cui l’economia cinese tra una quindicina di anni supererà quella americana, ma soffermarci sulle ragioni del successo della Cina, che ha permesso di ottenere eccezionali risultati nella lotta contro la povertà. La spiegazione, che va per la maggiore, è che il processo di riforme avviato da Deng Xiao Ping abbia permesso alle forze di mercato di esprimersi producendo il miracolo cinese. Non vi è alcun dubbio che la famosa frase di Deng «arricchirsi è glorioso» ha coinciso con una svolta radicale dell’economia cinese, riassumibile con la battuta: «Non si produce più quanto e cosa Pechino prescrive, ma si produce quanto e cosa vuole il mercato». Ma questa spiegazione del trentennale boom cinese appare riduttiva. A maggior ragione se si considera che in questi decenni la Cina è riuscita a superare (relativamente indenne) gravi crisi dell’economia mondiale: da quella asiatica del 1997 allo scoppio della bolla speculativa formatasi in borsa all’inizio del 2000 fino alla recente crisi finanziaria.
Il successo cinese appare dovuto non solo all’abbraccio dell’economia di mercato, ma anche alla riuscita combinazione tra le forze del mercato, chiamate a fornire gli incentivi individuali, una cultura contadina, che spinge a privilegiare il risparmio, e una tradizione confuciana, che esalta il ruolo dell’istruzione. A questa combinazione si è aggiunto uno Stato dirigista, che non si è più occupato delle questioni microeconomiche, ma degli indirizzi economici del Paese e delle misure finalizzate ad evitare i potenziali rischi. Insomma, un’economia indirizzata e diretta da Pechino e non lasciata in mano unicamente alle libere forze di mercato. Come ha giustamente scritto l’ex direttore di UBS, Vittorio Volpi, il modello cinese costituisce la rivincita della mano visibile. Ed è quanto pensano anche molti governi dei Paesi emergenti, che guardano alla Cina come a un modello da imitare.
Il successo cinese pone problematiche su cui si dovrebbe cominciare a riflettere anche nei Paesi occidentali, dove negli ultimi anni si è ridicolizzato il concetto di bene comune, non si è più cercato di individuare degli obiettivi condivisi, dove l’esaltazione del mercato è servita per coprire gli interessi dei gruppi di potere più forti e dove la democrazia rischia di trasformarsi in un’oligarchia
18 ago 2010
di ALFONSO TUOR
La notizia che quest’anno l’economia cinese supererà per grandezza quella giapponese e assurgerà al rango di seconda potenza economica mondiale, sopravanzata unicamente dagli Stati Uniti, ha occupato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Eppure la notizia in sé e per sé non è rilevante. Infatti già da alcuni anni la Cina occupa il secondo rango in base a una classifica fondata sulla parità dei poteri d’acquisto stilata dal Fondo Monertario Internazionale, ma il reddito pro capite dei cinesi è ancora circa un decimo di quello dei giapponesi. Molto più importante è il fatto che l’area comprendente i Paesi del Sud-Est asiatico riuniti nell’ASEAN, Taiwan, Corea del Sud, Giappone e Cina, che ha dimensioni paragonabili a quelle dell’economia americana e di quella europea, non solo sta diventando sempre più integrata grazie a scambi commerciali più intensi, ma anche più dipendente dal crescente peso della Cina. Tra i principali fattori di successo della Cina vi è stato indubbiamente la capacità di Pechino, da un canto, di sfruttare appieno le potenzialità che offriva il processo di globalizzazione condotto a livello commerciale sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e, dall’altro, di contribuire a creare e a sviluppare un mercato continentale asiatico, che prima per motivi politici non era mai esistito. E questo mercato, che comprende anche l’India, è oggi quello più dinamico e con le migliori prospettive.
In questa sede non vogliamo addentrarci nelle previsioni, ad esempio della Goldman Sachs, secondo cui l’economia cinese tra una quindicina di anni supererà quella americana, ma soffermarci sulle ragioni del successo della Cina, che ha permesso di ottenere eccezionali risultati nella lotta contro la povertà. La spiegazione, che va per la maggiore, è che il processo di riforme avviato da Deng Xiao Ping abbia permesso alle forze di mercato di esprimersi producendo il miracolo cinese. Non vi è alcun dubbio che la famosa frase di Deng «arricchirsi è glorioso» ha coinciso con una svolta radicale dell’economia cinese, riassumibile con la battuta: «Non si produce più quanto e cosa Pechino prescrive, ma si produce quanto e cosa vuole il mercato». Ma questa spiegazione del trentennale boom cinese appare riduttiva. A maggior ragione se si considera che in questi decenni la Cina è riuscita a superare (relativamente indenne) gravi crisi dell’economia mondiale: da quella asiatica del 1997 allo scoppio della bolla speculativa formatasi in borsa all’inizio del 2000 fino alla recente crisi finanziaria.
Il successo cinese appare dovuto non solo all’abbraccio dell’economia di mercato, ma anche alla riuscita combinazione tra le forze del mercato, chiamate a fornire gli incentivi individuali, una cultura contadina, che spinge a privilegiare il risparmio, e una tradizione confuciana, che esalta il ruolo dell’istruzione. A questa combinazione si è aggiunto uno Stato dirigista, che non si è più occupato delle questioni microeconomiche, ma degli indirizzi economici del Paese e delle misure finalizzate ad evitare i potenziali rischi. Insomma, un’economia indirizzata e diretta da Pechino e non lasciata in mano unicamente alle libere forze di mercato. Come ha giustamente scritto l’ex direttore di UBS, Vittorio Volpi, il modello cinese costituisce la rivincita della mano visibile. Ed è quanto pensano anche molti governi dei Paesi emergenti, che guardano alla Cina come a un modello da imitare.
Il successo cinese pone problematiche su cui si dovrebbe cominciare a riflettere anche nei Paesi occidentali, dove negli ultimi anni si è ridicolizzato il concetto di bene comune, non si è più cercato di individuare degli obiettivi condivisi, dove l’esaltazione del mercato è servita per coprire gli interessi dei gruppi di potere più forti e dove la democrazia rischia di trasformarsi in un’oligarchia