copio le riflessioni che ho scritto a commento del bellissimo articolo di Gipa sul blog,
Articolo 18 e flessibilità del lavoro | Opinioni dal mondo
Quando i tedeschi, una decina di anni fa, implementarono, fra le altre, la riforma del mercato del lavoro, affidandone la stesura al (divenuto) ex direttore del personale del gruppo VW, fondamentalmente i capisaldi della stessa erano due:
- da un lato, una riduzione delle tutele post-perdita del posto di lavoro simile a quella della “riforma” Fornero, 12 e per gli ultracinquantenni fino a 18 mesi di assistenza economica e poi ciao;
- una consistente riduzione del cuneo fiscale-contributivo con relativo abbattimento del costo del lavoro a spese dello stato (e quindi non delle retribuzioni nette), che difatti permise l’ emersione di circa 900.000 posizioni prima di allora sommerse, che almeno in parte compensarono i minori introiti da parte della pubblica amministrazione. Il resto venne finanziato con una selettiva opera di riduzione di spesa pubblica per svariati punti di pil, che comunque non hanno certo trasformato la Germania in un paese privo di welfare,
anzi…
Prescindendo comunque da valutazioni di ordine politico,
è innegabile, a mio parere, che delle due gambe alla base della riforma tedesca, il governo italiano ne abbia selezionata con accuratezza una, quella che scarica i costi sociali sul lavoratore e sulle piccole imprese, e ne abbia scartata con gran demerito l’ altra, quella riguardante la riduzione delle pretese della pubblica amministrazione, che poi rappresenta (sempre parere mio) la vera discriminante per un efficientamento del mercato del lavoro.
Chi pensa che sia sufficiente l’ aumento dei costi su tutte le forme di contratto a tempo per obbligare le imprese ad assumere in massa le persone a tempo indeterminato commette un errore di miope dirigismo: in Italia il fattore maggiormente ostativo all’ assunzione è il costo nella sua componente fiscale e contributiva (non certo salariale): o si affronta quello, oppure il solo effetto di interventi di stampo burocratico-dirigistico sarà un aumento della delocalizzazione da un lato e del sommerso dall’ altro. Con buona pace della riforma “alla tedesca”. Nessuna impresa mette a repentaglio il proprio conto economico solo perchè un giorno un ministro decide di innescare una gara al rialzo sui costi.
Tra parentesi,
il maggior utilizzatore di precari è lo stato, che in questi ultimi anni ha fatto incetta di lavoratori con forme contrattuali flessibili per aggirare i blocchi di turnover imposti dalle manovre di austerity sulle proprie piante organiche; ciò ovviamente non è colpa dell’ attuale governo, ma sono curioso di vedere come verrà affrontata la questione.
Se si considera che in Italia, nel settore privato, una larga parte dei posti di lavoro sono appannaggio delle aziende con meno di 15 dipendenti e se si pensa alla varietà di strumenti a disposizione delle medio-grandi in un ambiente globalizzato (delocalizzazione, chiusura di reparti e/o di unità produttive con relativa messa in mobilità, etc) ci si rende conto di quanto sia sterile la pantomima nata intorno all’ art.18, de facto bypassato dal sistema ormai da tempo e abilmente utilizzato come totem da abbattere allo scopo di deviare l’ attenzione dell’ opinione pubblica dalla vera consistenza di questa “riforma”:
una riduzione di tutele in uscita superflua (anche se dall’ elevato valore simbolico), accompagnata da un falso incremento di elasticità in entrata. Il risultato (naturalmente bisognerà attendere il testo definitivo) sembra proprio lasciare a disposizione una sola leva: la riduzione del salario.
Un altro effetto di medio termine saranno i problemi che si troveranno ad affrontare quei 60enni che, usciti dal mercato del lavoro, dovranno fronteggiare la prospettiva di trascorrere 4,5 o 6 anni senza l’ ombra di un supporto economico in attesa di una pensione che però forse non arriverà nemmeno perchè rischieranno di non aver versato abbastanza contributi.
Da un lato, aumento dell’ età pensionabile, dall’ altro, in contemporanea, soppressione delle modalità di accompagnamento alla stessa.
In mezzo, una pressione fiscale su lavoro e impresa senza precedenti.
Obiettivi di bilancio pubblico perseguiti con queste modalità non so se salveranno l’ Italia dal fallimento, certamente non salveranno dal fallimento una bella fetta di italiani.