La gestione dell’emergenza sanitaria si sta rivelando un fallimento di dimensioni colossali,
abbiamo solo una sola e ultima opportunità prima del disastro finale,
del quale la politica ed i virologi da salotto dovranno rendere conto.
Riassunto veloce per capirci subito
Il nostro è un ordinamento giuridico liberale e democratico incentrato sulla “persona”,
nessuno può essere coartato a “proteggere” gli altri al prezzo di mettere a repentaglio la propria incolumità personale.
Soprattutto se si è giovani e sani, senza rischi nel caso di malattia Covid-19,
ma con rischi gravi, nel caso di somministrazione di vaccini/farmaci sperimentali,
che possono causare eventi avversi gravi o fatali.
Inoltre abbiamo già verificato che i vaccini non evitano di contagiarsi e soprattutto non evitano i contagi.
Quindi, è caduta anche la giustificazione giuridica per usare i vaccini sperimentali
in situazione di emergenza onde prevenire la diffusione del virus.
A tal fine, è molto più utile favorire l’immunità naturale generata dal virus nelle persone giovani e/o non malate,
che non patiscono conseguenze gravi dalla malattia.
Siamo in piena stagione invernale, periodo notoriamente di massima diffusione delle malattie legate ai virus influenzali.
Quando, tra un mese, avremo gli ospedali saturi e saranno positivi sia i vaccinati che i non vaccinati,
la politica sarà accusata di non aver gestito correttamente questa emergenza.
Autorizzare la circolazione ed il contatto tra persone vaccinate con il super green pass
(notoriamente contagiabili e potenzialmente contagiose)
è una follia di cui la politica dovrà rendere conto al paese.
Premessa sull’impraticabilità costituzionale di un obbligo vaccinale
Proviamo a spiegare perché il vaccino anti-Covid può essere, allo stato attuale delle cose,
al più rubricato al rango di obbligo “morale” (Mattarella dixit), ma mai e poi mai alla stregua di un obbligo giuridico.
Partiamo dall’articolo 32 della Costituzione che già mette un bel paletto:
“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Quindi, solo il Parlamento, a maggioranza, ha facoltà di deliberare in proposito,
ma incontra il succitato, non oltrepassabile, limite della dignità umana.
Cosa significa esattamente?
Lo sa benissimo, e potrebbe spiegarlo al premier Draghi, il ministro della Giustizia, Marta Cartabia.
A quest’ultima (più precisamente nel periodo in cui era la vicepresidente della Corte Costituzionale), dobbiamo la sentenza nr. 5 del 2018.
Tale pronuncia si muoveva, a sua volta, nel solco di una giurisprudenza risalente
nella quale si annoverano almeno
due precedenti pronunce del Giudice delle Leggi: la numero 307 del 1990 e la numero 258 del 1994.
Con la seconda, la Corte ebbe a occuparsi proprio della questione cruciale sul tappeto:
fino a che punto si può esigere, da un cittadino, un contegno “solidaristico”
– chiamiamolo pure, come il Capo dello Stato, “dovere morale” –
a tutela del benessere della collettività?
Ebbene, la risposta è inequivocabile.
Tale sacrificio è ammissibile solo se, e nella misura in cui, esso non implichi un correlato e serio rischio per la salute individuale.
Altrimenti detto: non è giuridicamente possibile obbligare chicchessia a un trattamento sanitario
in nome di una esigenza “pubblica”
laddove vi sia il rischio, per il singolo, della perdita della propria salute o della propria vita.
La parola chiave è “contemperamento” tra il diritto alla salute del singolo
ed il coesistente e reciproco diritto di ciascun terzo consociato,
nonché di entrambi i diritti con il benessere della collettività nel suo insieme.
Da rimarcare che il diritto del singolo va rettamente inteso anche nel suo contenuto negativo:
di non assoggettabilità, cioè, di nessun uomo a trattamenti sanitari non richiesti o non accettati.
Per la precisione, secondo l’insegnamento dei giudici della Consulta,
la
legge impositiva di un trattamento sanitario è compatibile con l’art. 32 della Costituzione
solo a tre condizioni (l’ultima delle quali è la più importante, aggiungiamo noi):
- se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri;
- se – nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio,
- ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica – sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità;
- se vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato,
- salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili”.
Ora, è sufficiente una lettura dei bugiardini dei prodotti vaccinali anti-Covid più diffusi
per avere contezza della gravità (e, dunque, intollerabilità) delle controindicazioni predicabili in caso di somministrazione di tali farmaci.
E basta uno sguardo agli ultimi dati del nono rapporto sulla sorveglianza dei vaccini Covid-19,
pubblicato il 26 settembre scorso dall’AIFA, per ricevere un’ulteriore inequivocabile conferma.
Dal suddetto report emerge che si sono, ad oggi,
registrati 101.110 casi di sospette reazioni avverse al vaccino
(su un totale di 84.010.605 dosi somministrate),
il 14,4 per cento dei quali gravi.
Ma soprattutto, si sono avuti 608 casi di decesso, 16 dei quali sicuramente correlabili al vaccino.
Ciò basta a mettere fine, prima ancora di aprirlo, al dibattito sulla fattibilità giuridica di un vaccino anti-Covid obbligatorio in Italia.
In tal senso, ancora più chiara e indiscutibile è la motivazione della succitata pronuncia della Consulta, nr. 307 del 1990:
“Il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria.
Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato,
restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario,
anche se questo importi un rischio specifico, ma
non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri”.
Il nostro è un ordinamento giuridico liberale e democratico incentrato sulla “persona”,
non un regime dispotico basato sul “collettivo”.
Nessuno può essere “chiamato” né, peggio ancora, coartato
– neppure sulla base di slogan tanto apparentemente “altruistici” quanto sostanzialmente manipolatori –
a “salvare” o “proteggere” gli altri al prezzo di mettere a repentaglio la propria incolumità personale.
A maggior ragione se si tratta di intervenire su soggetti assolutamente sani,
giovanissimi e con una prospettiva nulla di morire della nota malattia;
ma suscettibili, invece, di riportare pregiudizi fisici irrimediabili, o addirittura fatali,
per effetto della somministrazione di un farmaco sperimentale.