CALVARIO E RASSEGNAZIONE DI UN TIFOSO DOC
L'insostenibile pesantezza di essere interista
di Umberto Brindani
23/5/2003
Tifosi interisti in lacrime
Una sequenza di secondi posti, anni spesi a spizzicare vittorie. Non è la sindrome del perdente. I nerazzurri soffrono, piuttosto, della sindrome del non-vincente
Come deve comportarsi il tifoso interista in relazione alla finale di Manchester? Tifare Milan per godere, vent'anni dopo, di un tonfo bianconero come quello con l'Amburgo («Atene 1983, io c'ero» recitavano le magliette juventine che poi andarono a ruba tra i nerazzurri)?
Oppure rassegnarsi a sostenere l'odiata Juventu-s pur di non rivedere i colleghi milanisti con quelle faccette furbastre esibite dopo il 13 maggio? Nel dubbio, io mi auguro una rissa in campo epocale ma incruenta, con squalifica di entrambe le squadre e Coppa assegnata a chi, tra le due escluse (Inter e Real Madrid), ha la miglior differenza reti nelle partite di semifinale. Troppo complicato? Beh, guarda caso, vincerebbe l'Inter.
Eh, sì. Siamo ridotti a questo. Accetteremmo quella Coppa non solo insanguinata (Juve: vedi Heysel), ma anche se ce la regalasse Saddam Hussein in persona. Saremmo disposti non solo a ritirare la squadra per «illuminazione insufficiente» (Milan: vedi Marsiglia), ma addirittura a ingaggiare Byron Moreno per un corso di Etica dell'arbitraggio. Pur di vincere. Almeno una volta. Pur di non ricevere più 15 email tutte uguali con l'annuncio «Le Grandi Vittorie: 12 videocassette VERGINI!».
La condizione esistenziale dell'interista non è ancora stata esplorata a fondo. Pensateci: un normale maschio adulto come me ha passato i migliori trent'anni della sua vita spizzicando uno scudettino qua e una Coppetta Uefa là, mentre le truppe meccanizzate del nemico rastrellavano ogni sorta di trofeo per interi decenni.
Per loro il successo è diventato un abito mentale (e pazienza se ogni tanto si perde), per noi un sogno fiabesco, come il Cavallo alato o il Mito dell'eterna giovinezza.
A proposito, da bambino potevo dire agli amichetti già da allora più antipatici: noi abbiamo due Coppe dei campioni e due Coppe intercontinentali, cicca cicca.
Oggi la contabilità, chissà perché, non è più il mio forte. Ci resta solo il meraviglioso «Solo noi mai retrocessi in serie B» (cari amici bianconeri: la Juve arrivò ultima – segnatevi questa parola: ultima – nel 1913 e fu ripescata per il campionato successivo), ma è un po' come prendersela con Antonio Conte perché miracolosamente gli sono ricresciuti i capelli. Potrebbe dire: ero calvo, e allora?
Già. Il fatto è che se ne sono accorti pure loro, del nostro dramma. A parte gli ultrà più beceri, ormai nessuno ci massacra più di tanto. È tutto un pacche sulle spalle, sorrisi di circostanza, sentimenti di sincera pena. E si sa, possiamo sopportare di essere odiati, non di essere compatiti.
E poi, a pensarci bene, il non essere mai andati in serie B è un'aggravante. Prendete il Torino: da mezzo secolo non vince praticamente nulla, retrocede per l'ennesima volta e i tifosi che fanno? Organizzano una giornata dell'orgoglio granata. E ci vanno in 50 mila, da tutta Italia. Cinquantamila! Con le famiglie, le bandiere, le speranze di riscatto.
Ma noi, da che cosa ci dobbiamo riscattare? Da una sequenza impressionante di secondi posti. Sempre lì, a un passo, a una partita, a un gol, a un fischio arbitrale dalla gloria. E ogni volta ricacciati sotto, mai in salvo e mai affogati, sempre in centomila allo stadio con le bandiere a mezz'asta e i cuscinetti che volano dalle tribune, con un genio del pallone che quel giorno lì ha il mal di denti, con il figlio da consolare e una credibilità da riconquistare perché gli avevi detto: «Quest'anno è il nostro anno». Ma papà, perché non è mai il nostro anno?
È chiaro che poi gli interisti che fanno i presidenti o gli amministratori delegati si contano sulle dita di una mano: sono dei fenomeni, delle rocce di granito, degli alieni.
È evidente perché i nostri tifosi vip sono quasi tutti comici, anche involontari. E, in misura crescente, di sinistra. Non bastano trent'anni di «ce la fa, non ce la fa, ce la fa, non ce l'ha fatta» per spiegare questa sindrome? Attenzione, non confondetela con la sindrome del perdente, che caratterizza altre squadre (la Roma, per esempio). No: è la sindrome del non-vincente.
Molto peggio, credetemi: perché poi, nella vita di tutti i giorni, si rischia di diventare gente che perde l'aereo per pochi minuti, alla lotteria compra il biglietto giusto «tranne-un-numero», ha il telefonino scarico quando chiamano per offrire un posto al doppio dello stipendio, corteggia solo ragazze bellissime che alla fine: «Ma che cosa avevi capito?».
Resta allora l'ultima questione: perché continuare a dirsi interisti? Beh, la risposta più pertinente l'ha data Nick Hornby (Febbre a 90'). Lui parla dei suoi pomeriggi allo stadio dell'Arsenal, ma funziona molto meglio per l'Inter. Leggete un po': «Ero già stato a degli spettacoli, naturalmente. Ma era diverso. I vari tipi di pubblico di cui avevo fatto parte fino a quel momento avevano pagato per divertirsi e, sebbene occasionalmente si potesse scorgere un bambino irrequieto o un adulto che sbadigliava, non avevo mai notato visi contorti dalla rabbia o dalla disperazione o dalla frustrazione. Ciò che più mi colpì fu proprio quanto la maggior parte degli uomini intorno a me odiasse, veramente odiasse, essere là. L'intrattenimento come dolore era un'idea che mi giungeva del tutto nuova. Non sarebbe troppo fantasioso ipotizzare che tale idea abbia plasmato la mia vita».
Pagare per soffrire. Semplice masochismo, quindi? Troppo facile. Scrive ancora Hornby: «Per il tifoso vero, il calcio come divertimento esiste nella stessa maniera in cui in mezzo alla giungla esistono gli alberi che cadono: presumiamo che succeda ma non siamo in grado di poterlo dire».
Giusto. Però, ora che ci penso... Ehi, Nick: guarda che noi lo possiamo dire. Nella nostra giungla gli alberi non cadono. Mai.