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uno sgurz dell' 87, càvoli


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ANARCHICI E NEVROTICI 'SGURZ' E' QUI PER VOI
27 gennaio 1987 — pagina 26 sezione: SPETTACOLI

CI SONO degli spettacoli che ti danno l' impressione del genio: genio e sregolatezza, naturalmente; genio con cadute, capriole, intermittenze: genio arbitrario e capriccioso, come no; geniaccio.

Ma sempre genio, o almeno spirito inquieto che si agita e ti porta con te, angelo diavolo o più probabilmente obliato semidio che passa per la sala e sconvolge per un attimo le leggi della probabilità.

Non è detto che uno spettacolo del genere sia proprio bello, anzi è difficile che lo sia: l' armonia non si addice al tipo di genialità di cui sto parlando, ne è la perfezione. Sarà piuttosto perturbante, inafferrabile e rivelatore, elettrico e contraddittorio. Quando è comico sarà un po' tragico, ti farà un po' paura, quand' è drammatico non mancherà di sghignazzare sui sentimenti più alti. Si contraddirà dunque, e per farlo parlerà molto di se stesso e poco del suo oggetto' svarierà, si perderà, tornerà su se stesso.

Mi accorgo che il mio discorso da generale si va facendo pericolosamente ad hoc, e allora lo dico subito: Chiamatemi Kowalski, esattamente come il suo protagonista Paolo Rossi, è uno spettacolo geniale, nel senso non esclusivamente benevolo che ho appena accennato: un lavoro volutamente confuso, a tratti sciatto, a tratti paradossalmente raffinato, originale e banale, svaccato e acutissimo, prevedibile e pazzesco...

Non a caso si occupa di due oggetti ugualmente improbabili: un signore che forse è un piccione viaggiatore e forse un ragazzo che soffre di brufoli e ha vinto il campionato mondiale di autoerotismo rapido, e si chiama evidentemente Kowalski; e una cosa non meglio definibile se non col suo nome, "sgurz", che somiglia spaventosamente al genio, e, se ho capito bene, è la risorsa più inegualmente distribuita al mondo, dopo il denaro.


Se bisogna credere alle dichiarazioni rese durante lo spettacolo, pare che ne avesse molto Rimbaud, che non mancasse a Vienna e dintorni durante gli anni Venti, che Pippo Baudo non ne abbia affatto e Andreotti nemmeno (ma Talleyrand sì, ce l' aveva), e il Papa solo quando vede il diavolo, che ne ha moltissimo.

Naturalmente a Kowalski non manca. Invece di seguire i contorcimenti autarchici dello spettacolo e le avventure di Kowalski, dalle orchestrine della riviera ai taxi milanesi dove lo assalgono visioni dei Blues Brothers, è meglio parlare della cornice di questo spettacolo. Di fronte al pubblico ci sono leggii e microfoni che alludono alla band di un concerto, e infatti c' è un sassofonista, un altro musicista alle tastiere, e ogni tanto si sentono delle curiose canzoni eseguite da David Riondino.


Ma poi c' è anche un tavolino con un piccolo televisore portatile e una bottiglia di whisky frequentemente consultata, una brandina e un sacco di giornalisti tipo Blitz o Linus che aiutano a passare il tempo gli attori non impegnati.

E c' è Paolo Rossi, nel ruolo del titolo, depositario della genialità e soprattutto della sregolatezza della serata. Piccolo, magro, pieno di energie, convinto che "il teatro quando è divertente si chiama cabaret, il cabaret quand' è noioso diventa teatro", lanciato un po' d' anni fa da Nemico di classe fra i protagonisti della nuova ondata iperrealista milanese, ma sempre fedele ai suoi sproloqui notturni da cabarettista per passione e non per necessità, si è fatto scrivere addosso questo spettacolo da Gino e Michele (autori di molto Drive in oltre che della Smemoranda e di molti altri paradossi intelligenti); ha chiesto una non-regia a Gabriele Salvatores che l' ha servito benissimo fingendo di non esserci, si è scelto con Riondino una spalla perfetta, morbidamente e ironicamente toscana, fantasiosa, poetica, petulante, quanto lui è concreto, duro, delirante, tendenzialmente violento. Ne è venuto fuori quello che si puù tranquillamente definire un delirio.

Quando Paolo Rossi vuol far ridere e racconta, un po' alla maniera di Dario Fo, di Berlusconi che viene dal Pianeta Craxo, e di quel suo manager che chiese a San Martino la moltiplicazione degli organi sessuali, ci riesce perfettamente secondo i canoni; ma quando poi ci parla delle scombinate sue visioni del mondo, socchiude gli occhi e incomincia a raccontarla sempre più grossa, con quell' energia dolorosa, allora fa proprio un po' paura; e se la situazione non ti autorizzasse a trasformare quell' eccesso di "sgurz" in risate, ti verrebbe da pensare a certi discorsi di Antonin Artaud.

Ma poi la tensione si spezza, vien fuori un' altra storia buffa meno pazza, una canzone, o magari un intervallo in cui la gente se vuole va a fumare, se no resta con gli attori che continuano a suonare e a chiacchierare. E alla fine si esce con la sensazione di non aver capito niente, di aver capito tutto, di aver visto uno spettacolo molto "sgurz", insomma, e assolutamente raccomandabile. Alle persone sufficientemente nevrotiche, naturalmente.


O almeno un po' anarchiche di cuore. Al Teatro Ciak di Milano - di UGO VOLLI
 
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