IL COMMENTO
AFGHANISTAN E PAKISTAN: CRISI PARALLELE
ALESSANDRO LETOLe elezioni presidenziali in Afghanistan sono state vinte da Karzai e questa sua affermazione, resa rapida ed irrituale dal ritiro dell’avversario Abdullah Abdullah, segna purtroppo l’aborto e non più la nascita della democrazia afghana.
Giunge quindi il momento di superare molte delle ambiguità e delle ipocrisie di questi ultimi mesi, perché non si può indugiare oltre sulla richiesta crescente e plurale di una onesta analisi di quello che ai più sembra un chiaro fallimento dell’intera politica occidentale nell’area.
Un’area che mostra uno spavaldo irredentismo soprattutto antiamericano, pure in Pakistan, dove sia la visita di Stato di Hillary Clinton, sia le stesse elezioni afghane, sono state salutate da spaventosi attentati.
Quasi a dimostrare, come se ce ne fosse bisogno, che il controllo del territorio è saldamente nelle mani dei clan, sempre divisi fra loro, ma straordinariamente uniti e solidalmente compatti nell’ostacolare la presenza alleata sul loro territorio, operando da teste di ponte per i talebani.
Ma anche a ribadire un concetto ormai noto da tempo, e cioè che senza una soluzione autenticamente politica in quell’area non si raggiungerà mai nessuna stabilità.
Sulla figura di Presidente nella sua qualità di elemento istituzionale unificante, era stata costruita una saggia e prudente strategia di conquista della fiducia degli afghani, ai quali è stato spiegato che solo attraverso il voto avrebbero potuto conquistare diritti civili, soddisfazione delle proprie necessità quotidiane e sicurezza.
Ma ben presto, soprattutto gli abitanti di Kabul, si sono resi conto del fatto che questo passaggio era solo teorico e che in pratica si rischiava sic et simpliciter di ratificare
con altri mezzi una situazione che sembra ormai irreversibile, cioè la condanna dell’intera area a vivere lacerata e divisa fra clan rivali.
La tensione si è alzata a dismisura negli ultimi giorni, fino a giungere all’attacco contro le sedi ONU, unica realtà davvero super partes in zona, con il conseguente ritiro dei loro operatori, proprio come volevano i talebani, che ora finalmente possono chiamare la popolazione ad una scelta: o con il clan di Karzai, accusato a vario titolo di corruzione ed ambiguità oppure con loro, o i loro alleati a geometria variabile.
La situazione presenta pertanto tratti di complessità crescente, perché la vittoria di Karzai appare chiaramente mutilata, ma anche e soprattutto perché egli è ormai espressione solo di se stesso, posto che gli USA, con un tempismo davvero straordinario, hanno comunicato proprio all’inizio della campagna elettorale che il loro rapporto di fiducia reciproco era venuto meno.
Ora, al di là delle ovvie valutazioni in merito ai criteri con cui a Washington umoralmente si scelgono e si sciolgono le alleanze, resta chiaro che in questa vicenda si registrano due vittime illustri fra le altre. Se la prima è il popolo afghano vessato da decenni di contese e guerre di altri combattute sul proprio territorio, a cominciare dall’invasione sovietica del 1979, ebbene l’altra è la democrazia.
Perché i suoi valori fondanti sono stati usati come bandiera di una campagna per la libertà di un popolo, che viene di fatto oggi consegnato a condizioni certamente non migliori rispetto a quelle precedenti. Non solo dal punto di vista geografico, perché l’area metropolitana di Kabul non rappresenta certo l’intero Afghanistan e se eventuali timide conquiste sono state effettuate in città, la situazione nelle valli è tale e quale all’epoca dell’avvento dei talebani.
E visto che nell’intera area che include il vicino Pakistan, anch’esso attraversato dalle magmatiche e profonde scosse seguite alle recenti e pure lì controverse elezioni presidenziali, si è puntato molto sull’emancipazione dalle tirannie per abbracciare la democrazia, questa stessa prospettiva ha perso il pathos ideologico originale. Non solo perché è stata vissuta quasi come una imposizione, ma pure perché guardando le recenti esperienze, non sembra aver contribuito a migliorare la vita quotidiana delle popolazioni locali.
Purtroppo torna in mente la massima cara al Mazzini, che sosteneva «più della tirannia, temo la libertà recata in dono», perché è chiaro come troppo banalmente si sia promosso un concetto di democrazia debole, basato sull’equazione democrazia=libere elezioni, mentre invece come ben sappiamo l’assimilazione del processo di democratizzazione è cosa lunga e complessa.
Ora non resta che reagire, anche per dare un senso alla presenza alleata in Afghanistan e alle relazioni in essere col Pakistan e con l’Iran, altra ingombrante entità che aleggia nell’area, dalla quale non si può prescindere per stabilizzare quei territori.
E per farlo bisogna ricorrere alla politica che, unica in questa fase, può concorrere a rasserenare gli animi e a realizzare i presupposti per una graduale normalizzazione.
L’ideale sarebbe perciò contare su meno soldati e più diplomatici: speriamo che Obama resista alla richiesta in senso opposto formulatagli dai suoi generali e sostenga una nuova e più forte presenza dell’ONU laggiù.
cdt oggi