Appunti di geopolitica

unica cosa seria che hai detto. Ci andrò senz'altro !

il resto giuro l'ho saltato appena ho capito che era un pianto sommesso.


Ecco.
Io fossi in te nn utilizzerei il verbo capire...
L'hai saltato.O meglio: ci hai provato... poi troppo difficile.
Evvabbè.
Pazienza.
Io invece andro' in Hoepli a fare incetta di libri. - Tra cui Aspen e Limes di fine settembre che nn ho avuto ancora modo causa impegni, di acquistare; Non condividerò tutto pero'....
Cosa ci vuoi fare: ad ognuno i suoi passatempi....Io che leggo e passo il tempo ad informarmi .. tu con le palline...:-o
 
Ecco.
Io fossi in te nn utilizzerei il verbo capire...
L'hai saltato.O meglio: ci hai provato... poi troppo difficile.
Evvabbè.
Pazienza.
Io invece andro' in Hoepli a fare incetta di libri. - Tra cui Aspen e Limes di fine settembre che nn ho avuto ancora modo causa impegni, di acquistare; Non condividerò tutto pero'....
Cosa ci vuoi fare: ad ognuno i suoi passatempi....Io che leggo e passo il tempo ad informarmi .. tu con le palline...:-o


hai un bel gap da recuperare. Poi ti interrogo.

Non ho mai visto non dico un intellettuale che è una parola per te fuori dal mondo, ma una persona mediamente colta vantarsi per il fatto che va a comprar libri. Sembra più un'operazione da ignorante frustrato :)
 
hai un bel gap da recuperare. Poi ti interrogo.

Non ho mai visto non dico un intellettuale che è una parola per te fuori dal mondo, ma una persona mediamente colta vantarsi per il fatto che va a comprar libri. Sembra più un'operazione da ignorante frustrato :)

Perchè te la prendi?:-?:-?

Scusa tu vai a giocare a golf io tra poco scollo e vado in Hoepli.. perchè mi dici vantarsi??? Non a caso ho sottolineato che abbiamo passatempi diversi.
Mi sfugge, davvero, perchè te la sei presa. Cioe' voglio dire se preferisci le palline del golf (preciso!) buon per te.
Poi nn te la prendere con me se fai figuracce.

Vedo che comunque stamattina nonostante la radiosa giornata ed il sano divertimento che ti attende sei di umore quanto meno basso...

Per la cronaca: nn avere timore, io NON andro' a tirare la giacchetta al mod ed a fare mille segnalazioni "mi ha sporcato il 3D :sad::sad::sad:..."
Perche' magari è questo che ti preoccupa....:-o
Non ti peoccupare è sempre "divertente" averi scambi con te. Adesso vai che si fa tardi.;)
 
Perchè te la prendi?:-?:-?

Scusa tu vai a giocare a golf io tra poco scollo e vado in Hoepli.. perchè mi dici vantarsi??? Non a caso ho sottolineato che abbiamo passatempi diversi.
Mi sfugge, davvero, perchè te la sei presa. Cioe' voglio dire se preferisci le palline del golf (preciso!) buon per te.
Poi nn te la prendere con me se fai figuracce.

Vedo che comunque stamattina nonostante la radiosa giornata ed il sano divertimento che ti attende sei di umore quanto meno basso...

Per la cronaca: nn avere timore, io NON andro' a tirare la giacchetta al mod ed a fare mille segnalazioni "mi ha sporcato il 3D :sad::sad::sad:..."
Perche' magari è questo che ti preoccupa....:-o
Non ti peoccupare è sempre "divertente" averi scambi con te. Adesso vai che si fa tardi.;)


:D oddio ti vedo ad un passo dal suicidio :D
 
:D oddio ti vedo ad un passo dal suicidio :D

Dunque:
siccome è notorio che rigiri le frittate...e per la proprietà transitiva...starai mica pensando di farti del male...perchè ti ho/abbiamo sbertucciato un pochetto??? Dai che la vita è bella, su'.Una corsetta un po' d' aria fresca e passa tutto.
Smetti di "chiagnere:lol::lol::lol::lol:".....

A proposito: sicuro che nn ti interessano i miei programmi di allenamento?? Fanno un gran bene..Ti fanno passare questi brutti pensieri.
 
IL COMMENTO

KARADZIC E IL SIPARIO DELLA STORIA

SERGIO ROMANOMentre l’Europa e gli Stati Uniti celebrano con grande soddisfazione il ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, sarebbe giusto ricordare che vi è almeno un Paese dell’Europa centro-occidentale in cui quell’entusiasmante evento suscita riflessioni malinconiche e molti esami di coscienza. Il Paese è la Jugoslavia. Qui il crollo del comunismo ebbe l’effetto di sgretolare il cemento ideologico con cui Tito aveva costruito, dopo la fine della seconda guerra mondiale, uno Stato apparentemente federale ma in realtà fortemente centralizzato.
Tornarono prepotentemente alla superficie le vecchie identità nazional-religiose dei suoi cittadini e il Paese fu tormentato da una guerra di sette anni in cui persero la vita o la casa alcune centinaia di migliaia di persone. La guerra ebbe due epicentri: la Bosnia fra il 1992 e il 1995, il Kosovo e la Serbia fra il 1998 e il 1999. Quando gli aerei americani smisero di bombardare Belgrado nella primavera del 1999, la creatura di Tito era ormai un puzzle di regioni separate e destinate a separarsi ulteriormente nel corso degli anni seguenti: Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Kosovo. Questa tragica storia ha avuto un epilogo giudiziario all’Aja di fronte a un tribunale istituito dall’ONU per i crimini di guerra della ex Jugoslavia. Dopo il processo al leader serbo Slobodan Milosevic, bruscamente interrotto nel 2006 dalla morte dell’imputato, è cominciato negli scorsi giorni quello contro il leader serbo-bosniaco, Radovan Karadzic. I capi d’accusa sono undici e vanno dalla pulizia etnica dei musulmani bosniaci al micidiale assedio di Sarajevo fra il 1992 e il 1995, dai massacri di Srebrenica alla detenzione di 200 militari, tenuti come ostag-gi nella speranza di indurre la Nato a interrompere i bombardamenti dell’estate del 1995.


Milosevic e Karadzic sono molto diversi. Mentre il primo era intelligente, scaltro e capace di calcoli raffinati, anche se spesso destinati a produrre effetti disastrosi, il secondo è un personaggio bizzarro e stravagante. È psichiatra, ha scritto poesie e durante la clandestinità, prima del suo arresto nel 2008, frequentava i convegni parascientifici, propagandava una specie di personale religione new age e portava, come segno della sua autorità spirituale, una folta e maestosa barba bianca. Ma pur essendo diverso da Milosevic ha cercato di copiarne la strategia processuale. Come il leader di Belgrado, anche Karadzic ha dichiarato di volere assumere la propria difesa e ha chiesto alla corte un lungo rinvio (alcuni mesi) per studiare l’enorme documentazione accumulata dal magistrato dell’accusa. Ma la corte, ammaestrata dalle tattiche di Milosevic, ha respinto la sua richiesta e ha deciso di iniziare il processo senza la sua presenza. Vi sarà quindi, prima o dopo, una sentenza.
Gli strascichi giudiziari delle guerre jugoslave, tuttavia, non sono ancora finiti. Mentre Bilyana Plavsic, la lady di ferro dei serbi bosniaci, ritorna in patria dopo avere scontato in un carcere svedese una parte della pena (11 anni) infittale nel 2003, i giudici dell’Aja aspettano la loro preda più ambita: il generale Radko Mladic, accusato tra l’altro di essere stato direttamente responsabile dei massacri di Srebrenica e tuttora latitante. La giustizia internazionale ha i suoi diritti e non intende trascurarli. Ma forse sarebbe opportuno ricordare che i processi dell’Aja sono percepiti a Belgrado come una sorta di persecuzione internazionale e che su tutte le tragedie della guerra deve cadere, a un certo punto, il sipario della storia.
 
IL COMMENTO

AFGHANISTAN E PAKISTAN: CRISI PARALLELE

ALESSANDRO LETOLe elezioni presidenziali in Afghanistan sono state vinte da Karzai e questa sua affermazione, resa rapida ed irrituale dal ritiro dell’avversario Abdullah Abdullah, segna purtroppo l’aborto e non più la nascita della democrazia afghana.
Giunge quindi il momento di superare molte delle ambiguità e delle ipocrisie di questi ultimi mesi, perché non si può indugiare oltre sulla richiesta crescente e plurale di una onesta analisi di quello che ai più sembra un chiaro fallimento dell’intera politica occidentale nell’area.

Un’area che mostra uno spavaldo irredentismo soprattutto antiamericano, pure in Pakistan, dove sia la visita di Stato di Hillary Clinton, sia le stesse elezioni afghane, sono state salutate da spaventosi attentati.

Quasi a dimostrare, come se ce ne fosse bisogno, che il controllo del territorio è saldamente nelle mani dei clan, sempre divisi fra loro, ma straordinariamente uniti e solidalmente compatti nell’ostacolare la presenza alleata sul loro territorio, operando da teste di ponte per i talebani.
Ma anche a ribadire un concetto ormai noto da tempo, e cioè che senza una soluzione autenticamente politica in quell’area non si raggiungerà mai nessuna stabilità.

Sulla figura di Presidente nella sua qualità di elemento istituzionale unificante, era stata costruita una saggia e prudente strategia di conquista della fiducia degli afghani, ai quali è stato spiegato che solo attraverso il voto avrebbero potuto conquistare diritti civili, soddisfazione delle proprie necessità quotidiane e sicurezza.
Ma ben presto, soprattutto gli abitanti di Kabul, si sono resi conto del fatto che questo passaggio era solo teorico e che in pratica si rischiava sic et simpliciter di ratificare
con altri mezzi una situazione che sembra ormai irreversibile, cioè la condanna dell’intera area a vivere lacerata e divisa fra clan rivali.

La tensione si è alzata a dismisura negli ultimi giorni, fino a giungere all’attacco contro le sedi ONU, unica realtà davvero super partes in zona, con il conseguente ritiro dei loro operatori, proprio come volevano i talebani, che ora finalmente possono chiamare la popolazione ad una scelta: o con il clan di Karzai, accusato a vario titolo di corruzione ed ambiguità oppure con loro, o i loro alleati a geometria variabile.

La situazione presenta pertanto tratti di complessità crescente, perché la vittoria di Karzai appare chiaramente mutilata, ma anche e soprattutto perché egli è ormai espressione solo di se stesso, posto che gli USA, con un tempismo davvero straordinario, hanno comunicato proprio all’inizio della campagna elettorale che il loro rapporto di fiducia reciproco era venuto meno.

Ora, al di là delle ovvie valutazioni in merito ai criteri con cui a Washington umoralmente si scelgono e si sciolgono le alleanze, resta chiaro che in questa vicenda si registrano due vittime illustri fra le altre. Se la prima è il popolo afghano vessato da decenni di contese e guerre di altri combattute sul proprio territorio, a cominciare dall’invasione sovietica del 1979, ebbene l’altra è la democrazia.

Perché i suoi valori fondanti sono stati usati come bandiera di una campagna per la libertà di un popolo, che viene di fatto oggi consegnato a condizioni certamente non migliori rispetto a quelle precedenti. Non solo dal punto di vista geografico, perché l’area metropolitana di Kabul non rappresenta certo l’intero Afghanistan e se eventuali timide conquiste sono state effettuate in città, la situazione nelle valli è tale e quale all’epoca dell’avvento dei talebani.

E visto che nell’intera area che include il vicino Pakistan, anch’esso attraversato dalle magmatiche e profonde scosse seguite alle recenti e pure lì controverse elezioni presidenziali, si è puntato molto sull’emancipazione dalle tirannie per abbracciare la democrazia, questa stessa prospettiva ha perso il pathos ideologico originale. Non solo perché è stata vissuta quasi come una imposizione, ma pure perché guardando le recenti esperienze, non sembra aver contribuito a migliorare la vita quotidiana delle popolazioni locali.

Purtroppo torna in mente la massima cara al Mazzini, che sosteneva «più della tirannia, temo la libertà recata in dono», perché è chiaro come troppo banalmente si sia promosso un concetto di democrazia debole, basato sull’equazione democrazia=libere elezioni, mentre invece come ben sappiamo l’assimilazione del processo di democratizzazione è cosa lunga e complessa.

Ora non resta che reagire, anche per dare un senso alla presenza alleata in Afghanistan e alle relazioni in essere col Pakistan e con l’Iran, altra ingombrante entità che aleggia nell’area, dalla quale non si può prescindere per stabilizzare quei territori.

E per farlo bisogna ricorrere alla politica che, unica in questa fase, può concorrere a rasserenare gli animi e a realizzare i presupposti per una graduale normalizzazione.

L’ideale sarebbe perciò contare su meno soldati e più diplomatici: speriamo che Obama resista alla richiesta in senso opposto formulatagli dai suoi generali e sostenga una nuova e più forte presenza dell’ONU laggiù.

cdt oggi
 
IL COMMENTO

GLI STATI UNITI E L’ALTRO COLOSSO ASIATICO

SERGIO ROMANO Il Premier indiano che Barack Obama ha ricevuto a Washington negli scorsi giorni dovrebbe essere, in teoria, il migliore interlocutore asiatico degli Stati Uniti.

Quando divenne ministro della Finanze di un governo presieduto da P. V. Narasimha Rao (era il 1991), Manmohan Singh ereditò un’economia dirigista di stampo socialista che era stata duramente colpita dal collasso del Paese (l’URSS) con cui l’India aveva stretto nei decenni precedenti rapporti particolarmente stretti.

Singh ebbe il grande merito di avviare con cautela un programma di deregolamentazione e privatizzazione che avrebbe progressivamente liberato le grandi energie economiche del Paese.

Da allora, con qualche oscillazione dovuta alla congiuntura internazionale, l’India ha registrato una crescita inferiore a quella della Cina ma pur sempre considerevole.

E può schierare in campo una straordinaria squadra di imprenditori, architetti, ricercatori, ingegneri elettronici e nucleari, maghi del software.
Non basta.
Nel 2006, durante una visita di George W. Bush a New Delhi, Manmohan Singh, divenuto ormai primo ministro, ha ottenuto dagli Stati Uniti ciò che il suo Paese maggiormente desiderava: il riconoscimento del suo status di potenza nucleare e un accordo che gli avrebbe permesso di acquistare in America la tecnologia moderna di cui ha bisogno per le sue nuove centrali.

Dopo la reciproca diffidenza degli anni della guerra fredda, i due Paesi sembravano fatti per intendersi.
Sono, anche per ragioni demografiche, le due maggiori democrazie del mondo.
Sono nate entrambe da una lotta di liberazione contro l’impero britannico.
E sono infine, dopo la svolta liberale di Singh diciotto anni fa, fedeli, in linea di massima, ai criteri e ai valori della economia di mercato.

Niente dovrebbe turbare i loro rapporti.
La situazione è in realtà più complicata.
L’India resta ancora, nella tradizione di Nehru e Indira Gandhi, una grande potenza «non allineata», vale a dire libera da organici patti di alleanza con altri Stati.
Ma ha due potenziali nemici, la Cina e il Pakistan, con cui ha avuto dopo l’indipendenza, numerosi bisticci e scontri, anche militari.

Il primo incombe sulle sue frontiere settentrionali e rivendica, tra l’altro, una parte dello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh.

Il secondo non riconosce la sovranità dell’India sul Kashmir, una regione musulmana di cui New Delhi si impadronì dopo la divisione della colonia britannica nel 1947.

Per fare fronte a queste due possibili minacce, l’India si è dotata dell’arma nucleare.

Ma ha anche tratto vantaggio, contemporaneamente, dalle potenziali divergenze politiche fra gli Stati Uniti e la Cina.
Finché la Cina sarebbe stata, per una parte della società americana, un possibile nemico, l’India avrebbe potuto dormire sonni tranquilli.

Ma il recente viaggio di Obama in Cina e la prospettiva, peraltro molto esagerata, di un nuovo direttorio mondiale (il G2) hanno suscitato le preoccupazioni di New Delhi
.
È particolarmente spiaciuto agli indiani il comunicato congiunto, diramato alla fine della visita del presidente degli Stati Uniti, in cui si legge tra l’altro che India e Stati Uniti intendono «lavorare insieme per promuovere la pace, la stabilità e lo sviluppo nell’Asia meridionale».
Sono parole che sembrano prefigurare una sorta di partenariato americano-cinese e, soprattutto, assegnare all’India un ruolo marginale.

Non so se il grande banchetto offerto da Obama al suo ospite sia bastato ad assopire i timori di Singh.

corriere del ticino,oggi

 

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