Appunti di geopolitica

C'è pure di meglio...

Cina e gli Stati Sud Orientali della UE:


Dal WSJ di ieri.

In soldoni, utilizzano contro la UE stessa quelli che sono/erano i serbatoi di lavoro a bassocosto sia per le tasse sia il minor costo intrinseco della zona...Una porta di servizio (citato letterlamente..) da cui entrare in UE anche in caso di incremento dello Yuan....o di altre misure.
Di piu': sono alacremente al lavoro in Turchia... Insomma, economicamente, siamo sotto attacco.. noi paghiamo per primi e quel figurante (Obama..) per secondo...


China is beginning to poke around Southeastern Europe for business deals, taking advantage of a capital drought in the region to gain a manufacturing toehold inside the 27-member European Union.

Chinese companies have already carved out niche stakes in Romania and Bulgaria, and China's government is offering a $1 billion credit line to Moldova -- enough to cover two years of current-account deficits in Europe's poorest country.

Investment flows are still a trickle, totaling just €71 million ($106.3 million) last year, according to Eurostat. But they are poised to rise quickly, if a flurry of recent deals is anything to go by.

On Monday, Dongfeng Motor Group Ltd., China's largest truck maker, signed a memorandum of understanding with Serbia's state-owned truck manufacturer Fabrika Automobila Priboj. The two companies didn't announce a deal value, but Dongfeng will control the product and brand, while FAP handles the manufacturing.

Also last month, Great Wall Motor Ltd. signed a deal with Bulgaria's Litex Motors to build an assembly plant to make 50,000 low-cost sports-utility vehicles annually, starting in 2010. The Chinese company will invest €80 million in the plant.

Meanwhile, in September, the first of a planned 100,000 tractors rolled out of a Romanian factory bought by China's Shantuo Agricultural Machinery Equipment. The plant represents an investment of more than $20 million by the company.

Nowhere is fresh capital more needed than in the Balkans, where economies have been pushed into steep recessions as huge current-account deficits have proved impossible to finance as the main sources of funds in the euro area freeze up.

While Serbia, Moldova and even Turkey make some strategic sense for China, Romania and Bulgaria in particular offer cheap "back-door entry" to the whole EU market, said Margot Schuler, an economist at the German Institute of Global and Area Studies.

Executives from China Luoayang Float Glass Group, a state-owned flat-glass producer, met with Bulgarian Finance Minister Simeon Djankov last week and toured the northeastern city of Razgad, where they hope to invest at least €80 million in a former glass factory
 
South Stream

Il progetto South Stream. È un
vero trattato di geopolitica
quello che Eni sta scrivendo
in questi mesi. Che condizionerà
il futuro in Borsa di lungo periodo del titolo del Cane
a sei zampe. Se c’è qualcosa che caraterizza il
dna di Eni più delle altre grandi major, americani in primis,
è quello di saper bene come muoversi tra le delicate
emolteplici questioni di politica internazionali.
Prendiamo proprio il caso
Iran, dove Eni ha deciso di alleggerire la presenza, anche
per dare un segnale agli americani a favore di un
maggior impegno in Iraq. Che, a dirla tutta, quanto a sicurezza
e controllo del territorio non offre certo grandi garanzie.
Nonsi può parlare di fuga dall’Iran. Il tutto rientra
in una logica globale. La mossa può essere letta una sorta
di grande swap da un mercato a un altro, che alla fine
porta a una suddivisione dei rischi con le altre major in
uno scacchiere mondiale sempre più caldo.Gli esperti di
lungo corso del settore petrolifero lo spiegano in una battuta:
«Si trasforma la fuga in un barter deal, uno sorta di
swap di permute e servizi in altre parti di mondo. Una
condivisione del rischio». Eni, da robusto colosso mondiale,
haavuto la capacità di accaparrarsi il più importante
giacimento iracheno, ha teso la mano a Gheddafi e
Chavez, e soprattutto ha chiuso l’accordo con Gazprom
per la realizzazione del gasdotto South Stream che connetterà
direttamente Russia ed Unione europea. Dopo
russi e americani, ora arrivano pure i francesi a bussare
alla porta di Paolo Scaroni, pronto ad accogliere ed ascoltare
Henri Proglio per discutere delle condizioni dell’ingresso
di Edf nel progetto South Stream: «Comunque
una posizione negoziale con Edf relativa a South Stream
- ha chiarito Scaroni - segue l’aver chiarito una posizione
comune con Gazprom». Sono in molti ad aver chiesto un
biglietto per partecipare al progetto del gasdotto: Grecia,
Ungheria, Bulgaria e ora Romania. Eni è di moda tra chi
vuole fare business petrolifero
Che petrolio e questioni geopolitiche siano strettamente
correlati non è comunque una novità. Il greggio è una risorsa
limitata ma resta e resterà ancora per diversi anni
il motore dello sviluppo delle economie mondiali. Condiziona
dunque le politiche dei Paesi consumatori e di quelli
produttori. Edi conseguenza le scelte strategiche delle
grandi corporate internazionali. In questo periodo di crisieconomica
le tensioni aumentano. Mentre tutti guardano
verso il Medio Oriente nuovi fronti si aprono. Alcuni
inattesi come le Falkland. La notizia è nota ma è arrivata
come un fulmine a ciel sereno. Il governo argentino ha
limitato le navigazioni verso le isole Falkland dopo la decisione
della GranBretagna di iniziare esplorazioni petrolifere
nella zona. Ogni nave diretta verso le isole, le Malvine
per gli argentini, dovrà chiedere l’autorizzazione a
Buenos Aires. La reazione inglese non si è fatta attendere.
La Gran Bretagna non ha dubbi sulla propria sovranità
sull’arcipelago e quindi sul diritto di effettuare esplorazioni
petrolifere
 
Nasce la conferenza sul Mediterraneo ... ULM

Nasce L’Um, l’organizzazione voluta da Sarkozy per rilanciare la cooperazione tra Europa e sponda sud. Tutti d’accordo meno che i Paesi dell’est, pronti a rilanciare mettendo sul piatto l’Ucraina.
Si è rovinato con le sue stesse mani. Quando ha lanciato l’idea dell’Unione mediterranea, l’intenzione di Sarkozy era quella di escludere la Turchia dal processo di integrazione europea.

Oggi la sua proposta si sta trasformando in realtà, ma depurata di ogni velleità dirigista. Angela Merkel ha rivisto il progetto, cambiando il nome della nuova organizzazione in Unione per il Mediterraneo (Um) e eliminando ogni sospetto sul suo carattere escludente: chi ne farà parte, Ankara compresa, non dovrà temere di essere distolta dal suo cammino verso Bruxelles, anzi. Il presidente francese aveva immaginato di associare solo i Paesi che si affacciano sul Mare nostrum per assumerne la leadership (e scalzare, per una volta, l’esuberante Germania), ma quello che nascerà a luglio sarà invece un patto tra tutti i Paesi dell’Unione Europea e sponda sud del Mediterraneo (Maghreb e Medio Oriente costiero).

L’Um è stata dunque inserita nel processo di Barcellona, che nel 1995 aveva già partorito la fallimentare Partnership Euro-mediterranea, ma si propone di fare di più: dare sostanza a una nuova cooperazione paritaria con istituzioni permanenti. L’Unione per il Mediterraneo dovrebbe dotarsi infatti di un Segretariato stabile, composto da funzionari distaccati della Commissione europea e rappresentanti dei Paesi della sponda sud. In più, è previsto un vertice bicefalo, formato da un copresidente europeo e uno sudmediterraneo. Sulla loro durata in carica, però, regna ancora l’incertezza, così come sulla sede del segretariato (Malta o Tunisia le più probabili). I nomi dei primi due leader che assumeranno la presidenza, invece, sembrano già decisi: Sarkozy e Mubarak. Accanto a loro regnerà un organo esecutivo su modello del Consiglio d’Europa e ogni due anni si riuniranno tutti i capi di Stato dell’area in quello che, per analogia col G8, è stato già definito Gmed.

Rimane da capire come l’Unione per il Mediterraneo affronterà i problemi finora irrisolti dagli accordi di Barcellona: scarsa collaborazione da parte dei Paesi della sponda sud, transizioni democratiche a singhiozzo, processi di pace interrotti sia tra israeliani e palestinesi che tra saharawi e marocchini.

Secondo i sostenitori dell’iniziativa, dare priorità alla politica, piuttosto che all’economia, è un passo in avanti che segna la volontà di un reale progresso verso la stabilità. Secondo i detrattori, l’Um non farà che duplicare strutture che già esistono, aumentare i costi della politica mediterranea (Bruxelles ha dichiarato che il suo budget per l’area non crescerà, nonostante la creazione di nuove istituzioni) e rendere ancora più litigiosi i governi recalcitranti. È difficile immaginare, infatti, rappresentanti israeliani, palestinesi, turchi e libici sedere nella stessa assemblea, eppure i Paesi arabi che aderiscono all’iniziativa si sono già incontrati per dare la loro prima approvazione all’iniziativa e il 9 giugno si ritroveranno in Slovenia per stilare la loro lista di proposte da presentare il 13 luglio a Parigi, quando l’Unione verrà ufficializzata.

Per ora, solo una cosa è certa: il malcontento degli Stati dell’Europa orientale. Se negli ultimi dieci anni la Ue ha guardato quasi esclusivamente a est, oggi si riaffaccia sul suo sud, in una difficile manovra di assestamento. I nuovi membri che vengono dal Patto di Varsavia fanno fatica a digerirlo e hanno già chiesto a Bruxelles di controbilanciare l’iniziativa con l’apertura del processo di adesione dell’Ucraina. Un tentativo di stirare allo spasmo un vestito già bucato, più o meno dalle parti di Belgrado.
 
Obama e l'Europa

Al centro del dibattito, organizato in collaborazione con l'ISPI e il TG1, un bilancio del primo anno della Presidenza Obama, una valutazione della crisi economico-finaziaria e degli strumenti messi a punto per superarla, nonché il rapporto tra la nuova amministrazione e l’Europa.

Ad un anno dalla sua elezione Obama si rivela come un presidente essenzialmente domestico impegnato a contrastare la crisi economica, ad affontare gravi problemi di budget e a gestire un sempre più complesso rapporto con il Congresso, peraltro aggravatosi dopo la recente sconfitta in Massachussetts che ha rimesso in discussione l’approvazione al Senato della riforma sanitaria.

Tecnicamente gli Stati Uniti sembrano fuori dalla recessione - il PIL dell’ultimo trimestre del 2009 è aumentato del 5,7% - ma, secondo la rilevazione dell’ultimo trimestre del 2009 mantengono un tasso di disoccupazione al 10% : se Wall Street viaggia ormai verso l’uscita dal tunnel, Main Street – in particolare la classe media - percepisce in pieno gli effetti di una crisi particolarmente dura. La perdita di consenso, dopo i fasti dell’elezione, ha convinto Obama a virare la sua strategia verso alcuni elementi di politica economica populista – di cui l’attacco al sistema finanziario fa parte - e a riconquistare la classe media attraverso una politica di incentivi in particolare per le piccole e medie aziende. Di fronte ad un deficit pubblico crescente il Presidente promette anche di congelare le spese discrezionali che ammontano al 6% del bilancio federale. L’approccio particolarmente duro e deciso adottato da Obama nel recente discorso sullo Stato dell’Unione dimostra – si è detto - che non può esserci su questioni economiche di primo piano alcuna delega ai tecnici, ma che le soluzioni alla crisi sono frutto di una decisa e meditata azione politica.

Impegnato essenzialmente sul fronte domestico il presidente americano ha scelto una politica estera continuista con il secondo mandato di Bush, che, sotto l’apparente immagine di disponibilità al dialogo, rivela un’impostazione di fatto nuovamente unilateralista come il G20 ha indubbiamente dimostrato.

In questa ottica l’Europa sembra vivere una situazione paradossale: l’inerzia dimostrata nell’era Bush veniva giustificata in un certo senso con una non adesione “ideologica” alle scelte dell’alleato americano. Nell’era Obama –peraltro ancora popolarissimo nel vecchio continente – l’Europa si trova, suo malgrado, a dover assumere un ruolo meno passivo. La politica estera del Presidente sta infatti spostando il baricentro del sistema internazionale verso l’Asia, Cina in testa. L’irrilevanza europea al vertice di Copenhagen è una dimostrazione recente di questo orientamento dell’amministrazione democratica. Se vuole continuare a contare – e secondo molti è forse troppo tardi – l’Europa deve dimostrare di avere visione e capacità di leadership non solo intercettando questi nuovi orientamenti, ma riuscendo ad elaborare una strategia che imponga negli assetti internazionali un livello di consultazione G3 piuttosto che un sempre più probabile G2.
 
E l'India?

L’India è prigioniera del suo mito. Nel bene o nel male, non c’è forse paese al mondo che susciti immediatamente, solo evocandone il nome, una tale cascata di stereotipi. Specie in Occidente, Italia inclusa. Negative o positive, tali “verità eterne”, impermeabili ai fatti e alle dinamiche storiche, sono filtrate dal velo di Maya che ci illude di conoscere ciò che invece ignoriamo. Da questo filtro metafisico alimentato dall’esotismo con cui gli europei - dai colonialisti ai figli dei fiori e ai loro figli - guardano alla “madre della civiltà”, dipendono le stenografie con cui si pretende di fotografare un subcontinente troppo vasto, popoloso e variegato per essere consegnato a un’istantanea. A una formula insieme semplice e definitiva. Che sia quella del paese affamato, disperato, eppure esotico e “magico”, di moda non troppi anni fa. O quella dell’”India Shining”, tutta software elettronica internet geni della matematica cinematografari e supermiliardari che è oggi merce comune nelle riviste glamour.

Tanto più lodevoli paiono dunque i tentativi di accennare a un’anatomia meno superficiale del subcontinente, come nel caso del convegno che l’Associazione Italia-India, l’Università Luiss-Guido Carli e l’Istituto di Studi San Pio V hanno organizzato a Roma il 4 e 5 dicembre, con la partecipazione di esperti indiani e italiani, chiamati a discutere dell’India attuale e dei rapporti fra i nostri due paesi. Un’occasione per confrontare punti di vista e specialismi diversi, per superare quelle barriere interpretative che oscurano la nostra conoscenza dell’India. Ciò che ci svantaggia nel rapporto con gli indiani. I quali, ha ricordato il nostro ambasciatore a Delhi, Roberto Toscano, ci conoscono molto meglio di quanto noi non conosciamo loro.

Insomma, abbiamo o non abbiamo a che fare con un nuovo Grande della Terra? Ha ragione Parag Khanna - giovane analista indiano-americano, nato nell’Uttar Pradesh ma ormai una star nel firmamento degli analisti geopolitici di Washington - quando considera che il G2 non è l’alfa e l’omega del nuovo ordine mondiale, e che invece il futuro è del triangolo Cina-India-Stati Uniti? E’ lui stesso a fornirci una risposta, nell’intervista che pubblicata nel volume di Limes, dedicato al “Pianeta India”: “L’India è un paese grande ed è una potenza, ma non è ancora più grande della somma delle sue parti. In altri termini, non è ancora una grande potenza”. Il che non vuol dire che non lo possa diventare nel futuro prevedibile.

Di sicuro Khanna non crede in “Cindia”, crasi di Cina e India, che qualche anno fa sembrava il marchio del futuro. Oggi le relazioni fra Pechino e Delhi volgono di nuovo al brutto, mentre tornano a galla antiche dispute di confine.E alcuni analisti indiani, forse affetti da complottismo, giurano che sono i cinesi ad alimentare i ribelli maoisti (naxaliti) che sfidano l’autorità dello Stato in vaste regioni della repubblica federale.

Così come sono alquanto raffreddati i rapporti con Washington. Lontani sembrano i tempi in cui Bush scommetteva su Delhi come alleato privilegiato degli Usa, per allestire una catena di contenimento della potenza cinese, le cui altre perle sarebbero state Giappone e Australia. Fino a siglare nel 2008 un accordo sul nucleare civile, con una potenza già dotata dell’arma atomica. Un’intesa dal profondo significato geopolitico: noi americani vi consideriamo un partner strategico, di cui fidarci.

Oggi di Obama nelle élite indiane si parla male. Per molte ragioni. Anzitutto, perché si affida al Pakistan nella lotta al terrorismo islamico, ciò che agli indiani appare – con qualche ragione – una contraddizione in termini: è come chiedere a chi appicca un incendio di collaborare a spegnerlo. Poi perché Obama sembra ammaliato dalla Cina, storico sponsor del Pakistan. Infine perché pare aver declassato l’India da partner strategico a uno dei vari pilastri della strategia americana in Asia. L’approccio della Casa Bianca appare agli indiani troppo corrivo verso Islamabad, per i cui favori a un certo punto Obama sembrava persino incline a chiedere a Delhi concessioni sulla questione del Kashmir, fulcro della discordia indo-pakistana.

Qui tocchiamo un aspetto fondamentale per intendere la caratura geopolitica e geostrategica di Delhi, che pochi in Europa considerano: la guerra in Afghanistan è anche, se non soprattutto, una guerra indiretta fra India e Pakistan. Dal punto di vista indiano, si tratta di impedire che il territorio afghano cada in mano ai taliban, alleati di fatto dei pakistani, o almeno dei loro servizi segreti che li hanno inventati, finanziati e coperti. Non per simpatia, ma perché dovevano (e debbono) garantire ad Islamabad la disponibilità dell’Afghanistan come ridotta strategica nei futuri conflitti indo-pakistani. Guerre che molti, su entrambi i lati del confine disegnato dagli inglesi in ritirata, considerano scontate. E che hanno nella sovranità sul Kashmir, oggi spartito di fatto fra India e Pakistan (che ne ha ceduto una piccola porzione alla Cina, con sommo scorno di Delhi), la loro radice profonda.Sotto il profilo geostrategico, per affermare le sue ambizioni da Grande, l’India sta attualmente rafforzando la flotta di alto mare per poter giocare un ruolo decisivo nell’Oceano Indiano. “Come dice la parola, l’Oceano Indiano è indiano”, spiegano orgogliosi alcuni strateghi navali, indicando la carta di quello che considerano un mare nostrum, attraverso il quale passano le vitali rotte di traffico del subcontinente. In conclusione: sul piano geopolitico l’India è una potenza regionale, ma non è ancora dotata di un irradiamento da attore globale.

Ma sul piano economico, possiamo già oggi annoverare l’India fra i Grandi del mondo? Dipende da quale lato abbordiamo il problema. In piena recessione cosiddetta globale (in realtà, mezza Asia non vi è mai entrata) l’India si sta rivelando una locomotiva piuttosto dinamica. Anche in forza del suo miliardo e duecento milioni di abitanti, da cui dovrebbe scaturire nei prossimi anni il sorpasso demografico della Cina, classificando l’India come paese più popoloso al mondo. Quest’anno il tasso di crescita indiano si avvicina al 7%, appena un paio di punti sotto i massimi degli ultimi anni pre-crisi, il doppio degli anni Ottanta.

Il paese è all’avanguardia nell’informatica, nella farmaceutica e in altri settori di punta, ad alto contenuto tecnologico. Ha un sistema universitario di ottimo livello, con alcuni atenei in grado di competere con i più famosi rivali americani o europei. E conta su un vasto serbatoio di giovani, convinti che il futuro sarà migliore del presente. Inoltre, può contare su una vasta diaspora d’oltremare, specie negli Stati Uniti, dove il 64% dei tre milioni di indiani-americani sono laureati, alcuni con posizioni di influenza nell’establishment politico-economico. Le valutazioni più credibili accreditano l’India di una diaspora di 20-30 milioni di connazionali, dei quali un terzo con passaporto nazionale. Negli ultimi anni, il governo di Delhi ha imparato a considerarli una risorsa essenziale. Non fosse perché garantiscono un notevole flusso di valuta verso la madrepatria, calcolato nel 2009 in circa 40 miliardi di dollari, dei quali la maggior parte provenienti dai paesi del Golfo Persico.

Questo stesso paese è al 134° posto nell’Indice di sviluppo umano codificato dall’Onu. Gli analfabeti sono più di un terzo della popolazione. Il 95% della forza lavoro è impiegata nell’economia informale. La quota di popolazione che sopravvive con meno di un dollaro al giorno, secondo la Banca mondiale, era del 42% nel 2004. Se calcolassimo come limite di povertà estrema i due dollari al giorno, almeno l’80% degli indiani ricadrebbe al di sotto di tale soglia.L’altro grande limite storico allo sviluppo indiano - su cui il governo di Delhi sta investendo molto per recuperare un gap insopportabile, specie in rapporto alla Cina - è quello delle infrastrutture: strade, porti, aeroporti, ferrovie sono lontane dagli standard occidentali o estremo-orientali. Altro gap di fondo, la carenza di energia, dunque di elettricità, che vincola l’uso di massa di tecnologie nelle quali pure gli indiani eccellono. La diffusione dell’elettronica e della telefonia cellulare risultano gravemente limitate dalla mancanza di corrente elettrica. Per tacere della scarsità di acqua e delle conseguenze non solo ambientali, economiche e sociali, ma anche sanitarie che ne derivano. Specie se si considera che centinaia di milioni di indiani non fruiscono di un banale cesso.

Queste montagne russe socio-economiche riflettono anche la forte disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza (della povertà) e l’ancora più marcata complessità etnico-linguistico-religiosa. Anche se l’ostilità fra ipernazionalisti indù e minoranze musulmane sembra aver perso di intensità parallelamente al declino del Bjp, il partito che raggruppa le correnti principali dell’Hindutva, l’ideologia che identifica l’India con l’induismo.

Non può che colpire come, a oltre sessant’anni dall’emancipazione da Londra, questo Stato-continente variopinto ed eterogeneo non solo non sia imploso – è capitato all’altro Stato erede del Raj britannico, il Pakistan, da cui si è staccato nel 1971 il Bangladesh – ma abbia preservato la sua democrazia, per quanto sui generis, di cui è assai orgoglioso. Così come ha prodotto standard di vita non certo occidentali, ma notevolmente più evoluti di quelli da cui era segnato alla nascita, nel 1947.

Allo stesso tempo, i leggendari livelli di corruzione della burocrazia pubblica e il familismo della classe politica – dove il centro della scena è tuttora occupato dalla famiglia Gandhi, di cui Sonia, di origini italiane, è oggi la leader indiscussa, dotata, anche come capo del Partito del Congresso, di autorità superiore a quella del primo ministro, l’esperto economista Manmohan Singh - costringono il motore indiano a girare al di sotto delle sue potenzialità.

Anche per questo, e possibilmente oltre gli stereotipi correnti, è necessario per noi italiani conoscere il vasto, orgoglioso pianeta India. Se per alcune grandi imprese quell’immenso paese è già terra sufficientemente cognita, per le élite culturali e politiche nostrane sembra tuttora evocare le misteriose giungle di cui forse avranno letto nei romanzi di Emilio Salgari..
 
I dilemmi delle forniture energetiche all’Europa: un consorzio per salvare Nabucco?

La corsa fra i principali attori internazionali per l’approvvigionamento di risorse energetiche, associata alla crescente importanza del gas nel mix energetico europeo e al persistere delle tensioni russo-ucraine, rappresenta una seria minaccia per gli approvvigionamenti dell’UE. Il fenomeno è evidente dalla fine degli anni ’90. Il sostanziale fallimento delle politiche energetiche di diversificazione e le difficoltà nella realizzazione dei nuovi gasdotti, su tutti il Nabucco, ha portato l’Unione europea a studiare la possibilità di sostenere la costituzione di un consorzio di imprese europee, il Caspian Gas Development Corporation (CDC), per l’acquisto del gas dalla regione del Mar Caspio. Si tratta di riserve che si stima ammontino a 3,3% delle riserve mondiali di gas.

Più della metà del gas consumato all’interno dell’UE proviene da paesi terzi: la Russia fornisce il 40% delle importazioni, mentre l’Algeria il 30%. Tuttavia in questi paesi la produzione negli ultimi anni ha iniziato a incontrare dei problemi dovuti alla scarsità di investimenti nella ricerca di nuovi siti e alla manutenzione delle attuali infrastrutture di estrazione e trasporto. La situazione è particolarmente grave per la Russia, dove il cresente peso del gas nel mix energetico nazionale ha costretto Gazprom a siglare importanti contratti per la fornitura di gas con i Paesi del centroasiatici (i cosiddetti “Stan”) per poter onorare gli impegni presi con le compagnie europee. Tuttavia, negli ultimi due anni anche il governo cinese ha siglato con gli “Stan” consistenti accordi per la fornitura di gas; questo crea serie difficoltà per la realizzazione del gasdotto Nabucco, il progetto infrastrutturale ritenuto strategico dalle UE. Nabucco, sostenuto anche finanziariamente da Bruxelles, dovrebbe collegare l’Austria alla Turchia e permettere dal 2015 il trasporto di 8 miliardi di metri cubi di gas all’anno nell’UE, arrivando fino a 30 miliardi entro il 2020. Di fatto, l’attivismo russo e cinese, oltre alla concorrenza del progetto South Stream (che permetterà il trasporto diretto di gas dalla Russia all’Italia attraverso le acque territoriali Turche) ha ridotto drasticamente le potenzialità del progetto.

E’ alla luce di tale situazione che la Commissione europea sta ora considerando la possibilità di promuovere la realizzazione del consorzio di compagnie europee (il CDC) per l’acquisto del gas estratto nel Caspio o da produttori indipendenti russi. In questo modo l’Unione avrebbe accesso a una maggiore quantità di gas, diversificando al contempo le fonti di approvvigionamento e rilanciando le prospettive di Nabucco. L’orientamento prevalente in seno alla Commissione è quello di non permettere alle società che sono parte del CDC di avere partecipazioni nelle pipelines in fase di realizzazione; ciò per evitare possibili comportamenti discriminatori nell’allocazione della capacità di trasporto dei gasdotti verso le società concorrenti di quelle partecipanti al consorzio. Tuttavia le società del CDC potranno utilizzare tali infrastrutture per il trasporto del gas acquistato nel Caspio.

L’amministrazione Obama ha finora tenuto, ufficialmente, una posizione di positiva neutralità verso il progetto, preoccupata com’è non solo dell’uso politico delle forniture di gas verso l’UE e della situazione georgiana, ma anche dell’attivismo russo-cinese in Asia centrale. Infatti la diplomazia americana non potrebbe che beneficiare dalla possibile costituzione del consorzio, il quale oltre ad aumentare la sicurezza energetica dell’UE rilancerebbe anche il suo ruolo e potenzialmante contenere la presenza russa e cinese. Lo sviluppo del consorzio potrebbe anche aiutare la realizzazione del Transcaspian pipeline, il gasdotto sottomarino che collegherebbe il Turkmenistan e il Kazakhstan all’Azerbajian, permettendo cosi’ il trasporto del gas del Caspio direttamente in Europa evitando il tragitto attraverso Iran e Russia. Proprio l’opposizione di questi due paesi, associato all’assenza di un accordo fra tutti gli stati del Mar Caspio sulla suddivisione delle acque territoriali e l’utilizzo delle risorse situate al suo interno, ha bloccato finora la realizzazione di tale infrastruttura, da sempre sostenuta dalle elité filo-americane dell’area interessate a limitare al massimo l’influenza di Teheran e Mosca.

A favore del consorzio é anche la Turchia, la quale ha siglato l’accordo intergovernativo per la realizzazione del Nabucco solo dopo essere stata rassicurata dalla Commissione circa la possibilità di ricevere una parte del gas acquistato dal consorzio. L’esecutivo di Erdogan, a fronte di una crescente domanda interna di gas, mira a sviluppare il paese come uno snodo regionale per il transito del gas, ed è per questo molto attiva nella realizzazione di infrastrutture di interconnessione.

La realizzazione del consorzio presenta, ad oggi, notevoli problematiche. Anzitutto molti analisti ritengono che i quantitativi di gas che si potrebbero acquistare non siano sufficienti a convincere i paesi centroasiatici a stipulare nuovi contratti con le compagnie europee piuttosto che con gli attuali patner cinesi e russi. Non va dimenticato che Gazprom esporta attualmente oltre l’80% del gas kazako, uzbeko e turkmeno. Per tale ragione la Commissione europea ha iniziato a valutare la possibilità che il consorzio importi il gas dall’Iran, ma gli scarsi investimenti nelle infrastrutture di estrazione e trasporto operati nel paese negli ultimi vent’anni pongono seri dubbi su tale opzione.

A questi problemi si aggiunge ovviamente l’irritazione russa e algerina, che considerano la costituzione del consorzio come una manovra per diminuire rispettivamente il ruolo di Gazprom e Sonatrach, compagnie energetiche nazionali, nel mercato europeo. Le due società, che hanno in scadenza a fine 2010 – inizio 2011 un elevato numero di contratti per la fornitura di gas all’Europa e necessitano di grandi capitali per finanziare lo sviluppo di nuovi giacimenti e la manutenzione delle infrastrutture di trasporto ormai obsolete.

Contrari al progetto sono, del resto, anche i principali gruppi energetici attivi nell’area, timorosi che la presenza di un unico acquirente, piuttosto che di una pluralità, potrebbe accrescere il potere contrattuale degli acquirenti e ridurre il prezzo del gas. In base a tale ragionamento, diverse società potrebbero scegliere di esportare verso i paesi mediorientali o del subcontinente indiano, dove la domanda è comunque forte.

La costituzione del consorzio rilancerebbe un certo dirigismo europeo nel campo energetico, ma potrebbe certamente avere positive ricadute sul peso anche geopolitico della UE in una vasta regione. Al contempo, ci sono molti motivi di cautela: proprio le molte implicazioni geopolitiche del progetto; la debolezza dell’UE come attore aggregato in politica estera; la necessità di raggiungere una notevole massa critica di gas da importare per persuadere gli “Stan” sviluppare nuovi siti. Nel complesso, la UE dovrà continuare a muoversi con gradualità e attenzione.

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IL COMMENTO
TURCHIA, UNA CRISI CHE TOCCA ANCHE L'UE
OSVALDO MIGOTTO
I Paesi occidentali di questi tempi sono mol­to presi dalle ricadute della grave crisi economico-finanziaria mondiale, sono preoccupati dal programma nucleare irania­no, nonché dalla minaccia del terrorismo di matrice islamica, lungi dall'essere neutraliz­z at a .

Queste ed altre sfide non dovrebbero però far pas­sare in secondo piano quanto sta accadendo in Turchia in questi giorni. Le continue tensioni tra il governo del premier Erdogan, sostenuto dal partito di ispirazione islamica Giustizia e Svi­luppo (AKP), e l'establishment militare, baluar­do della laicità del Paese, lunedì sono infatti sfo­ciate nell'arresto di 49 presunti cospiratori, tra cui figurano alcuni esponenti dei massimi verti­ci militari.
Ieri sette dei militari arrestati sono stati incrimi­nati con l'accusa di aver partecipato a un pre­sunto tentato golpe contro il Partito di radici isla­miche AKP di Erdogan nel 2003, mentre altri cin­que alti ufficiali sono stati accusati di cospira­zione contro lo Stato.

Si tratta del frutto di approfondite indagini giu­diziarie, durate anni, o dell'ennesimo scontro tra governo islamico e forze armate? Difficile per ora avere una risposta chiara al quesito; sta di fatto che oggi la Turchia, importante mem­bro della NATO, ritenuta un forte e fedele ba­stione difensivo lungo i confini orientali dell'Al­leanza Atlantica, appare più instabile che mai.

La Commissione europea ha mostrato preoccu­pazione per i sospetti di tentato golpe militare in Turchia, mentre negli USA il Dipartimento di Stato ha espresso la speranza che la situazio­ne si evolva in modo trasparente e nel rispetto della legge. Già, il rispetto della legge.
Purtrop­po in Turchia il sistema giudiziario ha presta­
to il fianco a severe critiche in più di un'occasione. Tanto che tra le precondizioni poste ad Ankara nella sua marcia di av­vicinamento all'Unione euro­pea (UE) vi è proprio la rifor­ma del sistema giudiziario.

Ma non è chiaro con quanta convinzione il governo turco continui a guardare a una fu­tura adesione al club di Bruxel­les. Sentitosi probabilmente re­spinto e offeso dalla contrarie­tà espressa da diversi Paesi UE ad una futura adesione della Turchia al club dei 27, il gover­no di Erdogan sta da tempo cer­cando di crearsi un ruolo nuo­vo nella comunità internazio­nale, puntando ad intrecciare più strette relazioni politiche ed economiche sullo scacchiere asiatico e su quello mediorien­tale.
Valorizzando le radici isla­miche della Turchia, Ankara ha così avviato un dialogo con tut­ti i Paesi musulmani, compresi quelli invisi all'Occidente; pri­mo fra tutti l'Iran. Un cambia­mento di rotta che ha pesato anche sui tradizionali buoni rapporti che la Turchia intrat­teneva da anni con Israele.

Ankara non ha infatti esitato a prendere le difese dei palestine­si di Hamas quando lo Stato ebraico ha lanciato, nel dicem­bre del 2008, una pesante offen­siva militare contro la Striscia di Gaza, in risposta al ripetuto lancio di razzi contro obiettivi civili israeliani.
E ora che il go­verno turco sembra sempre più intenzionato a privilegiare i con­tatti col mondo asiatico ed isla­mico, in Europa vi è chi si chie­de se non sia stato un errore stra­tegico mostrare un'eccessiva dif­fidenza nei confronti di una fu­tura adesione della Turchia al­l'Unione europea.

Certo, a molti europei fanno paura gli oltre 70 milioni di abitanti della Turchia e il peso che tale Paese avrebbe, nel ca­so di una futura adesione, nel­le stanze dei bottoni di Bruxel­les.
Ma forse dovrebbe suscita­re maggiori timori un progres­sivo allontanamento di Anka­ra dall'Europa, con la possibi­le nascita di nuove alleanze con Paesi per così dire poco racco­mandabili.
Non è forse un ca­so se proprio negli scorsi gior­ni la Spagna, che fino a giugno ha la presidenza di turno del­l'UE, si è detta favorevole a un rilancio dei negoziati di ade­sione della Turchia al club di Bruxelles.
Una proposta che non avrà su­scitato l'entusiasmo di tutti gli Stati membri, ma che alla luce degli ultimi preoccupanti svilup­pi in Turchia non può finire in un cassetto.
L'Unione europea sta vivendo momenti estrema­mente difficili a causa delle pe­santi conseguenze che la crisi economica sta avendo su alcuni Paesi, ma ciò non è sufficiente per giustificare un immobilismo nei confronti delle gravi tensio­ni che stanno venendo a galla in Turchia.

L'incontro atteso per og­gi tra il premier Erdogan e il ca­po di Stato maggiore interforze Basbug ci dirà forse che spazi di manovra esistono per far rien­trare la crisi.
Osvaldo Migotto
cdt oggi
 
Ciao Mostro..

E' la resa dei conti tra Erdogan rappresentante di una visione islamica piuttosto intransigente di ampi strati della popolazione turca, vs l' esercito il quale ha sempre difeso una secolarizzazione della società turca; La Turchia è stata uno degli Stati + importanti durante la guerra fredda, essa rappresentava il bastione della Nato che proteggeva il fianco sud est della medesima, ed oltre a questo è stata attraverso le sue basi, una spina nel fianco della Russia e dell' Hearthland Russo Cinese (e tutti gli '''Stan che ci sono li')......In effetti anche prendere l' Afghanistan e poi perdere la Turchia è una follia tout court...
Una occasione temo perduta per la UE.
Che se nn gestita per tempo potrebbe essere foriera dei piu' gravi sviluppi in un prox futuro.
Potrebbe essere addirittura una mossa dell' intelligence SCO tesa a portare fuori dall' area Nato il piu' importante Paese nella zona; un qualchecosa che ricorda quanto fatto per esempio dalla Germania durante la ww1 nei confronti della Russia zarista, decretandone la fine, e modificando il corso della Storia i cui effetti si avvertono tuttora.
 
La nuova strategia afgana: “colpire e trattare"

L'offensiva militare della NATO nella provincia afgana dell'Helmand, iniziata all'alba del 13 febbraio, fa probabilmente parte di un’unica partita con la cattura di mullah Baradar nel porto pachistano di Karachi, l'8 febbraio. Baradar è considerato il braccio destro di mullah Omar, cioè di fatto il numero due della cupola talebana. E’ una partita che potremmo definire “dai una spallata e tratta”, o “colpisci duro e negozia”.
La cronologia degli avvenimenti non sembra casuale. Tuttavia, mentre è chiara la strategia messa in campo dai comandi NATO nel Sud del paese, è apparsa confusa l'operazione che ha portato all’arresto di mullah Baradar.
Operation “Moshtarak”: prendere e tenere
“Moshtarak” significa “Insieme” in lingua dari. Non a caso, l'offensiva conta, per la prima volta, su una maggioranza di soldati (e poliziotti) afgani, oltre a 7-8mila militari anglo-americani col supporto di canadesi, danesi ed estoni.
L’operazione guidata dal generale Stanley McChrystal, comandante in capo delle truppe americane e della NATO/Isaf in Afghanistan, segue un lungo stallo nelle operazioni militari di rilevante portata (costellato di piccole e medie azioni da parte NATO e da parte talebana). Si tratta di un'operazione congiunta in cui l'aviazione ha “ripulito” l'area del distretto di Marjah prima dell’offensiva di terra. Ora stanno agendo anche i mezzi pesanti col compito di conquistare un territorio considerato un caposaldo talebano e della produzione di oppio, tra le principali fonti di sostegno finanziario della guerriglia. Moshtarak è il tentativo di dare una svolta non solo militare alla campagna afgana basandosi su una miscela di nuove tattiche militari e civili; non più dunque una mera somma di azioni. La conquista di Marjah si articola su quattro passi che non sono esattamente un novità ma che questa volta sono delineati con precisione: shape (preparazione con bombardamenti preventivi), clear (l'operazione di terra), hold (mantenimento della posizione), build (ricostruzione, o meglio consolidamento della posizione in chiave di sviluppo). L’obiettivo dichiarato è dunque non solo conquistare, ma controllare il territorio per trasferirvi il potere dello stato centrale. E non solo in termini di sicurezza, bensì anche potere amministrativo e giudiziario, investimenti per lo sviluppo, costruzione di scuole e strutture sanitarie. Infine McChrystal ha chiarito in partenza un punto qualificante, o che almeno tale vorrebbe essere: “Il nostro modello non è Falluja”. Un'attenzione chiara al problema delle vittime civili.
L'affaire Baradar
L'arresto di mullah Baradar è apparso come un colpo a sorpresa. L’interpretazione che possiamo definire ufficiale è che finalmente Islamabad ha cambiato strategia: è ora disposta a collaborare seriamente con Washington, e l'operazione congiunta di due servizi segreti (ISI pachistano, CIA americana) è solo il primo risultato.
Ma accanto alla versione ufficiale, ve n’è un’altra, in due versioni. La prima versione è che l'arresto sia un'operazione per “salvare la faccia” proprio allo stesso mullah Baradar, un uomo dato in quota alle “colombe” nella cupola talebana che governa il conflitto da Quetta (città del Belucistan pachistano). Baradar sarebbe in sostanza già arruolato tra i talebani “buoni” e disponibili a trattare. Qualche indizio in tal senso viene dalla tempistica: arrestato lunedi 8 febbraio, la notizia – resa pubblica il 16 - viene tenuta nascosta nonostante il New York Times ne sia al corrente dal giovedì 11. Si chiede il silenzio stampa non tanto, come dichiarano le fonti ufficiali, per non guastare un'operazione più sofisticata che dovrebbe portare alla cattura di Omar, quanto per attendere che Moshtarak abbia inizio.
Seconda versione della tesi alternativa: il Pakistan ha sì cambiato strategia, ma solo nel suo più stretto interesse. Baradar è una vecchia conoscenza dell'Isi dagli anni Novanta, quando fonda con Omar il movimento dei talebani. Islamabad pensa ora di utilizzarlo come una pedina forte per sedere, attraverso di lui, a un futuro tavolo negoziale. Possibile, ma con molti dubbi, poiché gli anni recenti hanno dimostrato che l'influenza pachistana sui talebani è forte ma più limitata di quanto si pensasse.
In ogni caso, Baradar è una carta importante se è vero quanto si dice di lui, cioè nel 2004 avrebbe autorizzato la prima delegazione di negoziatori che viaggia verso Kabul per trattare con Karzai. E avrebbe anche rappresentato Omar in tutti i negoziati a seguire (sia con il governo sia con gli americani) che sono stati avviati con la mediazione saudita da due anni a questa parte. Attualmente, Baradar sarebbe lo strumento per sfruttare varie fratture all’interno del movimento guerrigliero, tra falchi e colombe, tra generali della Shura di Quetta e “colonnelli” sul terreno. Dunque, “colpire e trattare”.
Speranze e rischi
A dieci giorni dall'inizio dell'Operazione Moshtarak è presto per un vero bilancio: non è chiaro quanto ancora durerà la fase “clear” né come si articolerà la fase “hold” (anche se un discreto numero di poliziotti afgani ha già preso posizione). Né tanto meno su quale disegno si svilupperà la fase della ricostruzione, che è in effetti la più delicata e complessa.
Gli obiettivi dell'Operazione sono certamente molteplici, e non tutti indirizzati al teatro o al pubblico afgano. Quanto sia importante l'aspetto mediatico-simbolico lo si evince dalla recente crisi di governo che ha appena attraversato l'Olanda: le opinioni pubbliche occidentali stanche e distratte, quando non apertamente contrarie alla missione, sono un tassello fondamentale del conflitto. E’ tanto più cruciale, allora, che si possa dichiarare un successo militare in tempi piuttosto brevi. Se così sarà, diventerà poi possibile una trasposizione dello schema di Moshtarak anche in altri settori del paese. E sarebbe utilizzabile come una sorta di grimaldello: una minaccia pendente nella fase di avvio dei negoziati politici (vedi alla voce Baradar). I due aspetti sono strettamente connessi, perché siamo anche di fronte al tentativo di far camminare la famosa “transizione”, ossia l'ormai assodata necessità di passare la mano agli afgani.
Resta una grave ombra sull'operazione, e dunque un rischio da cui guardarsi: le vittime civili, il cui numero è comunque alto nonostante le cautele. Ci si deve chiedere se non sarebbe stato opportuno sospendere qualsiasi operazione dall'aria mentre era in corso Moshtarak. Un tale evento è imputabile all’antica malattia del deficit di coordinamento, per cui la mano destra non sa cosa fa la sinistra? Un altro di questi “errori” e la stessa operazione Moshtarak rischia di veder vanificare parte dei suoi obiettivi.
La strada è in salita su entrambi i fronti – colpire e trattare – ma è una strada ormai tracciata.
 
The India factor in the “AfPak” conundrum

No armed conflict in the world is as tangled as the one the Obama administration began calling “AfPak” when it came into office – referring to the geopolitical continuum of Afghanistan and Pakistan. No armed conflict encompasses so many diverse and dangerous elements. These include the leadership of al Qaeda, a failed Afghan state, a struggling Pakistani one and a sub-continental nuclear rivalry. India is both at the periphery and the center of the AfPak crisis.

India has no contiguous border with Afghanistan. It has no direct involvement in the fighting there. It strongly supports the US and International Security Assistance Force (ISAF) presence in Afghanistan. But its support is limited to development aid and holding the hand of President Hamid Karzai. Yet, in an important respect New Delhi is at the heart of the problem because India is Pakistan’s overriding security obsession. It is this obsession that makes Pakistan determined to provide succor to at least a portion of the Taliban. As Obama’s special representative for Afghanistan-Pakistan, Richard Holbrooke likes to tell Indian interlocutors: “India says it has nothing to say about Afghanistan and Pakistan. But Pakistan won’t talk about anything except India.”

It is an open secret that Pakistan has played a double game with the US when it comes to Afghanistan. Islamabad mobilizes its military against the so-called “Pakistan Taliban” who have been launching attacks against the Pakistani state. It provides only half-hearted support to the US against the “Afghan Taliban” – a militant conglomerate whose most prominent members are Mullah Omar and Sirajuddin Haqqani. Islamabad has adopted this hedging strategy because it fears being caught between hostile regimes in Afghanistan and India. It believes its only guarantee against this is to ensure that the Afghan Taliban are part of whatever dispensation rules in Kabul. Its best-case scenario is a US withdrawal that would allow Omar and Haqqani to take over in Kabul. Its fallback position is for the Taliban to share power in Kabul – in other words, reconciling the Taliban with Karzai.

Islamabad has argued with Washington that the US should pressure India to reduce its profile in Afghanistan and make concessions on the long-standing Kashmir dispute. Aware of India’s prickliness regarding foreign policy guidance from third countries and unwilling to harm a nascent bilateral relationship with India, Washington has, Indian officials say, “only gone through the motions.” Many in Washington also believe that even if India reduced its presence in Afghanistan to nothing, Pakistan would still insist on an Afghanistan that took its cue from Islamabad. This school, taking its cue from scholars like Chatham House’s Farzana Shaikh, argues Pakistan’s problems are less about India than its own distorted internal political setup.

Finding the right mix of carrots and sticks, that would persuade Pakistan to give up pursuing a quasi-colonization of Afghanistan through its quasi-allies (the Afghan Taliban), lies at the heart of the AfPak conundrum.

The Obama administration would love to end the US military role in Afghanistan. However, Washington has more or less concluded that a withdrawal in the present circumstances would almost certainly mean a Taliban takeover. That, in turn, would mean the resurfacing of al Qaeda and continued attacks against the US elsewhere – but this time with the benefit of a state sponsor.

There are other schools of thought. isolationists argue for the US to withdraw, and use aerial drones to keep al Qaeda off balance. Both the Afghan Taliban and, more discreetly, the Pakistani military have argued that a new Taliban regime would have nothing to do with al Qaeda and that the US would never have to face another September 11th-style attack. These positions have been treated with skepticism in the White House, though some Democratic Party leaders – and several European governments – take them at face value.

On the other side of the spectrum are those who argue that a Taliban-ruled Afghanistan would be likely to turn on Pakistan. And this would even place the latter country’s nuclear arsenal in jeopardy.

In India’s view, based on official and unofficial discussions with the Obama administration, the US has come to accept it has little choice but to stay the course in Afghanistan. However, Obama’s need to placate the left wing of his own party means political calculations are muddying military strategy: this is why the logic of US political and military strategy in Afghanistan is marked by bouts of inconsistency.

For example, India believes the announcement of the US policy of trying to win over lower-rung Taliban fighters with money should have followed rather than preceded the present military “surge”. In any case, there is enough inconsistency in US policy for India to maintain an Afghan hedge, however weak. Which is why it keeps an open line of communication with Tehran and Moscow on Afghanistan. India was initially surprised by the emphasis on “reconciliation” at the London conference on Afghanistan last January, though Washington was quick to reassure that it believed in “reintegration” of low-level Taliban soldiers and not power-sharing in Kabul.

There are few governments as fervently supportive as New Delhi of the US military posture in Afghanistan, hoping that Washington will fight “as long as it takes.” India publicly opposes “quick exit strategies”, privately referring to such thinking collectively as “the British school”: a Taliban return would only mean increased terrorist activity within Indian borders.

But despite the large stakes it sees in the West’s struggle in Afghanistan, India plays a relatively passive role in that country. There are three reasons for this.

First, India is constrained from playing a significant military role because of the Pakistani military’s fears of having Indian troops on both its western and eastern borders. India offered a blank check to President George W. Bush after the Taliban fell, but the then Pakistani ruler, General Pervez Musharraf, made it clear that his cooperation in the war against terror was contingent on a non-role for India. This has not stopped India from deploying over 4000 soldiers in Afghanistan – largely to guard its aid workers.

Second, India broadly believes the US will have to stay the course in Afghanistan: attempts to negotiate with Omar and Haqqani are bound to fail simply because the Afghan Taliban believe they are winning the war. And it is these two leaders who carry out the bulk of the attacks on ISAF troops in Afghanistan.

Third, India believes the ultimate origin of Afghanistan’s ills lies in Pakistan. The focus of Indian policy has not been Kabul but Islamabad. And the focus of Indo-US cooperation on AfPak policy has been on how closely they can work together on “managing” Pakistan. New Delhi and Washington, for example, agree that the primary desire of hardliners in the Pakistani military is to trigger an Indo-Pakistani crisis and provide an excuse for Pakistan to abandon its anti-Taliban troop deployments to the west of the country. Hence India’s restraint in not mobilizing its military after the Mumbai terror attacks of November 2008 – despite Pakistani involvement.

India also agrees with Washington that it should attempt a dialogue with Pakistan to ease the latter’s increasing sense of siege. Polls in Pakistan show that a majority of urban Pakistanis believe the terrorist attacks within their country are a conspiracy hatched by the US, India and Israel working together.

However, New Delhi has insisted there must be no third country role in such talks as this would make them impossible to sell domestically. Which is why the two countries have held semi-secret “back channel” diplomatic negotiations for over six years independently of the lackluster official talks.

Prime Minister Manmohan Singh is, according to his aides, determined to use his considerable political capital to find a common ground with Pakistan. This is partly personal: his birthplace is in Pakistan. But it is also driven by a fervent belief that Pakistan, as he says, constitutes the only “external constraint” on the rise of India.

Pakistanis hate the term “AfPak” because it implies that they are in the same league as Afghans. Also, for the military in particular their Afghanistan strategy is merely a subset of their India policy. Therefore, for Islamabad this is really an “AfInd” issue. India and the US have come to accept that this is the reality. And New Delhi has been trying to ease Pakistan’s insecurity.

Whether any of this will work is, in the final analysis, dependent on whether Pakistan can arrest its own internal decay. The real issue, in other words, may actually be “PakPak
 

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