Alfonsín è un esponente del partito radicale e figlio del presidente che traghettò il Paese verso la democrazia. «Mai vista tanta violenza verbale e politica»
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Ricardo Alfonsín: «Con Milei la democrazia è a rischio. In Argentina un governo di unità»
di Sara Gandolfi
Alfonsín è un esponente del partito radicale e figlio del presidente che traghettò il Paese verso la democrazia. «Mai vista tanta violenza verbale e politica»
Subito dopo il voto, il candidato di estrema destra Javier Milei, che il 19 novembre si sfiderà al ballottaggio con il peronista Sergio Massa, si è scagliato contro i «traditori» della Unión Cívica Radical che, rompendo la linea del loro stesso partito, avrebbero in parte votato Massa e non la candidata conservatrice Patricia Bullrich, arrivata solo terza e quindi estromessa dalla corsa per le presidenziali. Era lo scenario auspicato da Ricardo Alfonsín, 71 anni, ambasciatore argentino in Spagna e figlio dell’ex presidente Raúl Alfonsín, che 40 anni fa traghettò l’Argentina alla democrazia. Oggi, dice, «il pericolo è Milei».
La democrazia argentina è davvero in pericolo?
«Dal 1983, non ho mai ascoltato discorsi tanto incompatibili con le condizioni civiche ed etiche indispensabili ad una democrazia. Mai ho vissuto tanta violenza verbale. Milei chiama gli avversari politici “ratti”, “parassiti”, “montagna di escrementi”. Dice che il Papa “è governato dal demonio”. Giustifica la dittatura militare, la repressione, il genocidio e il terrorismo di Stato. Come posso non essere preoccupato da ciò che quest’uomo rappresenta e da come potrebbero tradursi le sue idee se vincesse le elezioni?».
Come spiega il suo successo?
«Accade in tutto il mondo. La società si sta de-ideologizzando, è infastidita dalla politica, perché ha la sensazione di un arretramento. Possiamo fermare questo processo solo se individuiamo le cause che permettono l’ascesa di questi personaggi. Se la società ha una tale disaffezione rispetto alla politica e alle istituzioni è perché la gente vive una sensazione di regresso».
Se vincesse Milei, l’Argentina corre davvero il rischio democratico o sarà solo un altro Bolsonaro?
«La democrazia si danneggia in molti modi. Se vincesse Milei, come minimo, c’è il serio rischio che la democrazia si degradi. Le nostre sono società con una grande conflittualità sociale e le politiche economiche che vuole implementare questo signore creerebbe un conflitto ancora maggiore. Come l’affronterebbe, politicamente, Milei? ».
Il peronista Massa può batterlo?
« Sì, perché vuole un governo d’unità nazionale. Pur nella differenza ideologica, è necessario creare consenso per superare questa situazione socio-economica così difficile. Servono accordi fra la politica, l’economia e il settore del lavoro. È l’approccio che noi radicali abbiamo sempre difeso».
Qual è l’eredità di suo padre Raul Alfonsin?
«Mio padre era un uomo di dialogo. Se non c’è dialogo, c’è violenza diceva. Non è una questione di buona educazione, ma di capacità politica perché la politica è lo strumento per affrontare problemi complessi. La sua qualità si misura anche con la capacità dei suoi dirigenti di comprendere quali sono le questioni che necessitano accordi e quali no. Mio padre poi credeva nella democrazia sociale — qualcuno dice che è un’invenzione della sinistra, ma non è così —. La democrazia sociale riconosce che ogni membro della società deve vedere riconosciuti non soltanto i suoi diritti fondamentali ma anche il diritto per esercitarli e vederli soddisfatti».
Perché lei sostiene la candidatura di Massa?
«In una corsa elettorale si decide chi governa, tra chi pensa che la cosa migliore per l’economia di una nazione sia che lo Stato ne resti fuori e che possa “risolvere” tutto il mercato, e chi invece pensa che la politica deve intervenire nell’economia, nell’ambito della Costituzione e della legge ovviamente, perché dall’economia dipendono le condizioni di vita dell’intera popolazione. Questo è il tema di queste elezioni e per questo credo che alla fine vincerà l’”oficialismo” (il peronismo al governo, ndr), ossia il candidato che reclama l’impegno della politica per far sì che l’economia funzioni in maniera solidale».
Però Massa è ministro dell’Economia e l’economia ora non va per nulla bene in Argentina...
«La situazione che l’oficialismo ha ereditato nel 2019 era molto difficile, lo provano gli indicatori economici e sociali dell’epoca, non lo dico io. Oltretutto il governo precedente (guidato dal liberista Mauricio Macri, ndr) aveva contratto un debito letteralmente inestinguibile, con quei termini di pagamento. Non solo. Poi è venuta la pandemia, nel 2020 il Prodotto interno lordo è crollato quasi di 10 punti. Anche la guerra in Ucraina ha colpito pesantemente la nostra economia. E, nell’ultimo anno, abbiamo sofferto la siccità peggiore della nostra storia, che ha provocato un danno di 20 miliardi di dollari all’economia argentina. Tutto questo ha complicato la nostra capacità di controllare l’inflazione, però l’economia è in crescita, così come il tasso di occupazione e gli investimenti, rispetto ai livelli pre-pandemia, quando governava Macri. E c’è un impegno forte per controllare l’inflazione, oltre alla convinzione della necessità, come dice il candidato presidente di Unión por la Patria, Sergio Massa, di formare un governo di unità nazionale per affrontare queste difficoltà».
Però Massa non era il candidato ufficiale dell’Unión Cívica Radical, cui lei appartiene...
«In realtà, la Unión Cívica Radical solo nominalmente fa parte di Juntos por el Cambio. Se si guarda all’essenza di un partito, ossia l’insieme delle sue idee e dei suoi valori, che si traducono in un programma, non è parte di quella coalizione. Le idee del partito erano assenti in questa campagna elettorale. Conosco la storia del mio partito, conosco i settori che vuole rappresentare. Per questo ho detto ai radicali che, al di là delle differenze che possiamo avere con la proposta politica di Massa, il programma dell’”oficialismo” è molto più vicino a noi di quanto non sia quello di Juntos por el cambio. E chi ha diretto il partito negli ultimi tempi sa bene che le cose stanno così».
E perché la dirigenza di UCR invece ha preferito stare al fianco di Bullrich?
«Oggi non esistono più partiti che possano contare con una proporzione numerosa di elettori fedeli come accadeva in passato. I partiti politici hanno seguito l’onda della società, si sono de-ideologizzati. Anche i programmi sono diventati irrilevanti. L’unica cosa importante è vincere le elezioni. Così ha fatto l’UCR. Io continuo ad essere un radicale ma il mio partito non è un reggimento e sono libero di pensare in modo differente dai dirigenti».
Lei è disponibile per un incarico di governo?
«Io sarei felice se si formasse un governo che permettesse di migliorare le condizioni di vita dei settori popolari. Da tempo io sono un militante di idee, anche se i partiti si sono convertiti in macchine elettorali. E se non troverò un partito con le mie idee lavorerò per crearlo».