mostromarino
Guest
in pieno OT
ma non voglio aprire un thread apposito sulla svizzera
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un bell`articolo di sergio romano (che mi piace per grande equilibrio) che in italia non apparirà
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IL COMMENTO
SVIZZERA, I SEGNALI DI UN MALESSERE
SERGIO ROMANO Commetterebbe un errore, credo, chi pensasse che il negoziato svizzero-americano sui conti segreti di UBS e il contenzioso degli scorsi giorni con la Francia siano soltanto incidenti di percorso.
Temo che siano invece i segnali di un malessere che affligge la Confederazione da parecchi anni e che gli svizzeri, prima o dopo, dovranno affrontare con tutto il buon senso e la concretezza di cui sono capaci.
Il fenomeno risale agli anni Settanta ed è il risultato di una sorta di «sessantotto svizzero», meno appariscente e più graduale e strisciante di quello che ha colpito altri Paesi europei.
Il primo segnale fu probabilmente il libro di un sociologo ginevrino, Jean Ziegler, apparso nel 1976, che metteva in discussione la moralità della politica aziendale di alcune grandi imprese e, più generalmente, della classe dirigente del Paese. «La Svizzera al di sopra di ogni sospetto» mi sembrò un pamphlet brillante, ma troppo ideologico e, alla fine, poco convincente.
Quando le banche svizzere furono accusate di ospitare nei loro forzieri il denaro di alcuni dittatori e avventurieri della politica, la Confederazione corresse qualche stortura e prese qualche buon provvedimento.
Ben presto cominciammo a parlare d’altro.
Ma il Paese dovette affrontare pochi anni dopo un nuovo problema, più fastidioso e complicato.
Accadde quando alcune organizzazioni ebraiche, grazie alla maggiore importanza assunta dal genocidio nazista nel dibattito politico dell’Occidente, cominciarono ad accusare la Svizzera di avere incamerato i conti delle vittime, di avere chiuso le sue porte a molti rifugiati, di avere accettato oro tedesco strappato ai prigionieri dei lager prima della morte.
Mi sembrò che molte di quelle accuse fossero ingiuste e non tenes
sero alcun conto delle condizioni in cui la Svizzera, durante la guerra, aveva dovuto proteggersi dalle minacce tedesche e difendere la propria neutralità.
Il Governo della Confederazione reagì prudentemente e saggiamente.
Istituì una Commissione che produsse un rapporto per molti aspetti esemplare e stanziò, a favore delle vittime e dei loro eredi, una somma importante. Il capitolo sembrò definitivamente chiuso.
Si è riaperto negli scorsi mesi con vicende che coinvolgono ancora una volta il sistema bancario.
Ma gli accusatori in questo caso non sono né i sociologi alla ricerca di una causa né le organizzazioni ebraiche.
I pubblici ministeri sono due: il Tesoro degli Stati Uniti e il Consiglio dei ministri economico-finanziari dell’Unione Europea.
Tre processi in trent’anni esigono qualche riflessione.
Esistono malesseri passeggeri che la Confederazione può curare con qualche correzione di rotta?
O esiste un malessere più grave e profondo?
Preferisco la seconda ipotesi, poiché credo che buona parte di ciò che sta accadendo alla Svizzera in questi anni sia dovuto al modo in cui una parte della sua opinione pubblica interpreta il concetto e la prassi della neutralità.
In uno splendido libro, nuovamente pubblicato dall’editore Dadò nel 1998 («La Svizzera, storia di un popolo felice»), Denis de Rougemont spiegò che la politica di neutralità fu adottata per evitare che i Cantoni fossero attratti nell’orbita politica degli Stati (soprattutto Germania e Francia, ma anche Italia) con cui avevano vincoli linguistici, storici e culturali.
La neutralità servì alla Svizzera, in altre parole, molto più di quanto non sia servita ai suoi vicini. Le servì, in particolare, durante la seconda guerra mondiale.
Nel 1945 la Confederazione era per molti aspetti (ancora più di Svezia, Spagna e Portogallo) il grande vincitore del conflitto, l’unico che non avesse perduto nulla e guadagnato molto.
Aveva preservato l’integrità del suo territorio, non aveva subito perdite di vite umane e di patrimonio industriale, aveva fabbriche e banche in eccellenti condizioni di salute, tutte pronte a trarre grande beneficio dalla ricostruzione di un continente distrutto.
Da quel momento ha approfittato (giustamente) della grande Europa integrata che stava nascendo intorno alle sue frontiere, e (meno giustamente) dei peccati fiscali dei cittadini dei suoi membri.
Mi sono chiesto spesso, venendo a Lugano, se i ticinesi si rendano interamente conto dell’impatto che il miracolo italiano ha avuto sulla loro vita e della stretta relazione esistente fra i guai italiani e le fortune del loro sistema bancario.
È nata così una Svizzera ancorata a un concetto datato di neutralità e moralmente ambivalente: impeccabilmente virtuosa all’interno, ma scaltra e spregiudicata all’esterno.
Nella percezione di molti svizzeri questa «rendita di posizione» è stata associata alla neutralità. Una formula adottata per impedire che la Confederazione si disintegrasse è diventata un simbolo di separatezza e, per qualche gruppo particolarmente sciovinista, addirittura di apartheid.
Molti uomini politici della Confederazione (penso in particolare a Pascal Couchepin) hanno capito che i tempi erano cambiati, che le politiche del passato andavano adattate a nuove circostanze, che la neutralità non era più un toccasana e che occorreva traghettare il Paese verso le sponde dell’Unione.
Ma si sono spesso scontrati con una coalizione composta da forti interessi corporativi e da un certo ringhioso «leghismo svizzero».
La crisi finanziaria degli scorsi mesi ha avuto l’effetto di dare voce ai critici della Svizzera e di fornire argomenti ai suoi accusatori.
Mi auguro che fornisca argomenti anche a chi desidera aprire un dibattito nazionale sul senso e i limiti della neutralità nell’Europa d’oggi.
ma non voglio aprire un thread apposito sulla svizzera
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un bell`articolo di sergio romano (che mi piace per grande equilibrio) che in italia non apparirà
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IL COMMENTO
SVIZZERA, I SEGNALI DI UN MALESSERE
SERGIO ROMANO Commetterebbe un errore, credo, chi pensasse che il negoziato svizzero-americano sui conti segreti di UBS e il contenzioso degli scorsi giorni con la Francia siano soltanto incidenti di percorso.
Temo che siano invece i segnali di un malessere che affligge la Confederazione da parecchi anni e che gli svizzeri, prima o dopo, dovranno affrontare con tutto il buon senso e la concretezza di cui sono capaci.
Il fenomeno risale agli anni Settanta ed è il risultato di una sorta di «sessantotto svizzero», meno appariscente e più graduale e strisciante di quello che ha colpito altri Paesi europei.
Il primo segnale fu probabilmente il libro di un sociologo ginevrino, Jean Ziegler, apparso nel 1976, che metteva in discussione la moralità della politica aziendale di alcune grandi imprese e, più generalmente, della classe dirigente del Paese. «La Svizzera al di sopra di ogni sospetto» mi sembrò un pamphlet brillante, ma troppo ideologico e, alla fine, poco convincente.
Quando le banche svizzere furono accusate di ospitare nei loro forzieri il denaro di alcuni dittatori e avventurieri della politica, la Confederazione corresse qualche stortura e prese qualche buon provvedimento.
Ben presto cominciammo a parlare d’altro.
Ma il Paese dovette affrontare pochi anni dopo un nuovo problema, più fastidioso e complicato.
Accadde quando alcune organizzazioni ebraiche, grazie alla maggiore importanza assunta dal genocidio nazista nel dibattito politico dell’Occidente, cominciarono ad accusare la Svizzera di avere incamerato i conti delle vittime, di avere chiuso le sue porte a molti rifugiati, di avere accettato oro tedesco strappato ai prigionieri dei lager prima della morte.
Mi sembrò che molte di quelle accuse fossero ingiuste e non tenes
sero alcun conto delle condizioni in cui la Svizzera, durante la guerra, aveva dovuto proteggersi dalle minacce tedesche e difendere la propria neutralità.
Il Governo della Confederazione reagì prudentemente e saggiamente.
Istituì una Commissione che produsse un rapporto per molti aspetti esemplare e stanziò, a favore delle vittime e dei loro eredi, una somma importante. Il capitolo sembrò definitivamente chiuso.
Si è riaperto negli scorsi mesi con vicende che coinvolgono ancora una volta il sistema bancario.
Ma gli accusatori in questo caso non sono né i sociologi alla ricerca di una causa né le organizzazioni ebraiche.
I pubblici ministeri sono due: il Tesoro degli Stati Uniti e il Consiglio dei ministri economico-finanziari dell’Unione Europea.
Tre processi in trent’anni esigono qualche riflessione.
Esistono malesseri passeggeri che la Confederazione può curare con qualche correzione di rotta?
O esiste un malessere più grave e profondo?
Preferisco la seconda ipotesi, poiché credo che buona parte di ciò che sta accadendo alla Svizzera in questi anni sia dovuto al modo in cui una parte della sua opinione pubblica interpreta il concetto e la prassi della neutralità.
In uno splendido libro, nuovamente pubblicato dall’editore Dadò nel 1998 («La Svizzera, storia di un popolo felice»), Denis de Rougemont spiegò che la politica di neutralità fu adottata per evitare che i Cantoni fossero attratti nell’orbita politica degli Stati (soprattutto Germania e Francia, ma anche Italia) con cui avevano vincoli linguistici, storici e culturali.
La neutralità servì alla Svizzera, in altre parole, molto più di quanto non sia servita ai suoi vicini. Le servì, in particolare, durante la seconda guerra mondiale.
Nel 1945 la Confederazione era per molti aspetti (ancora più di Svezia, Spagna e Portogallo) il grande vincitore del conflitto, l’unico che non avesse perduto nulla e guadagnato molto.
Aveva preservato l’integrità del suo territorio, non aveva subito perdite di vite umane e di patrimonio industriale, aveva fabbriche e banche in eccellenti condizioni di salute, tutte pronte a trarre grande beneficio dalla ricostruzione di un continente distrutto.
Da quel momento ha approfittato (giustamente) della grande Europa integrata che stava nascendo intorno alle sue frontiere, e (meno giustamente) dei peccati fiscali dei cittadini dei suoi membri.
Mi sono chiesto spesso, venendo a Lugano, se i ticinesi si rendano interamente conto dell’impatto che il miracolo italiano ha avuto sulla loro vita e della stretta relazione esistente fra i guai italiani e le fortune del loro sistema bancario.
È nata così una Svizzera ancorata a un concetto datato di neutralità e moralmente ambivalente: impeccabilmente virtuosa all’interno, ma scaltra e spregiudicata all’esterno.
Nella percezione di molti svizzeri questa «rendita di posizione» è stata associata alla neutralità. Una formula adottata per impedire che la Confederazione si disintegrasse è diventata un simbolo di separatezza e, per qualche gruppo particolarmente sciovinista, addirittura di apartheid.
Molti uomini politici della Confederazione (penso in particolare a Pascal Couchepin) hanno capito che i tempi erano cambiati, che le politiche del passato andavano adattate a nuove circostanze, che la neutralità non era più un toccasana e che occorreva traghettare il Paese verso le sponde dell’Unione.
Ma si sono spesso scontrati con una coalizione composta da forti interessi corporativi e da un certo ringhioso «leghismo svizzero».
La crisi finanziaria degli scorsi mesi ha avuto l’effetto di dare voce ai critici della Svizzera e di fornire argomenti ai suoi accusatori.
Mi auguro che fornisca argomenti anche a chi desidera aprire un dibattito nazionale sul senso e i limiti della neutralità nell’Europa d’oggi.