NASDAQ COMPOSITE (3 lettori)

paolomi

Nuovo forumer
'STATE nmano all'art.'....

tradotto significa:.....SIETE NELLE MANI di un artista!?

o nelle mani di una saggio esperto e umile, oltre che generoso e capace di condividere i suoi sforzi e i suoi buoni risultati con altri?
 

celeron

Main Trend Analysis
NASDAQ COMPOSITE 6 - 8 SETTEMBRE 2005

NASDAQ COMPOSITE 6 - 8 SETTEMBRE 2005

L'indice Nasdaq Composite supera il livello di inversione del MT daily, fissato a 2152,22 e si porta al test dell'importante dinamica 1x2 rialzista facendo registrare un massimo intraday a 2173,85.
I volumi si mantengono sui livelli caratteristici del periodo estivo.
Il MT weekly resta ancora orientato al ribasso, anche se è già possibile individuare segnali di inversione dall'analisi della singola barra di outside formatasi sul minimo. Per il proseguimento dell'attuale fase di rialzo è necessario un superamento con tenuta della fan rialzista 1x2 riportata sul grafico daily. Molto positiva sarebbe una nuova inversione rialzista del MT weekly.
Gli indicatori tecnici confortano l'attuale fase rialzista: il MACD sul frame daily ha incrociato al rialzo la sua media ed ha superato la linea dello zero. L'RSI14 di Wilder conserva la sua impostazione rialzista di breve.
I livelli di prezzo si mantengono al di sopra delle medie di riferimento. La media lenta ha ancora una volta contenuto la fase di correzione, essendo stata violata in chiusura solamente nella seduta del 28 agosto.

1126254146nasdaq2.jpg

1126254476nasdaq1.jpg

1126254660nasdgann.jpg

1126254783nasweekly.jpg
 

celeron

Main Trend Analysis
NASDAQ COMPOSITE 9 SETTEMBRE 2005

NASDAQ COMPOSITE 9 SETTEMBRE 2005

Il Nasdaq Composite aggiorna il Main Trend daily sul nuovo valore 2177,23, confermando l'attuale impostazione rialzista.
I primi traget di prezzo sono individuabili a 2185, 2191 e 2219, che rappresenta il massimo di periodo.
Al ribasso i più immediati livelli di supporto restano localizzati a 2164 e 2152 oltre ai livelli individuati dalle due medie di riferimento posizionate a 2147 e 2132.
I Volumi di scambio risultano in aumento rispetto alle precedenti sedute, anche se si mantengono ancora lontani dalla soglia dei 2B.

1126344615nasdaq1.png


1126344914nasdgann.jpg


P.s.

Da oggi i miei interventi saranno presenti anche sul forum di TraderXsempre al link:

http://www.tradersxsempre.com/public/forum/index.php?showtopic=108&st=425#
 

celeron

Main Trend Analysis
Considerazioni sul Fattore Tempo

Considerazioni sul Fattore Tempo


W. D. Gann diceva : TIME tells on all things (Il TEMPO rivela tutte le cose).
Ma a quale TEMPO si riferiva Gann? E' lo stesso tempo che l'uomo occidentale moderno ordinariamente concepisce e percepisce?
O è qualcosa di diverso?
Talvolta, nel corso di questo thread, ci siamo soffermati, in maniera inevitabilmente rapida, su alcune considerazioni riguardanti il modo di concepire il tempo, evidenziando alcuni apparenti paradossi ( li chiamano Oopart) della storia ( http://www.investireoggi.it/forum/viewtopic.php?p=252654#252654 ) e sottolineando la polisemia che la parola tempo è venuta acquisendo nel corso del "progredire" della civiltà occidentale
( http://www.investireoggi.it/forum/viewtopic.php?p=329479#329479 ).

Oggi proveremo ad esprimere altre considerazioni che, per la natura stessa del thread e del forum che ci ospita, non possono che avere un carattere introduttivo e sintetico.
Esistono sostanzialmente due concezioni classiche del tempo : quella lineare e quella circolare o, meglio, ciclica. Quella ciclica è stata appannaggio delle società antiche ed in genere delle Società Tradizionali, mentre quella lineare è caratteristica delle società moderne ed in particolare di quella occidentale. Le due concezioni contengono, inevitabilmente, aspetti una dell’altra.
Per poter condurre un'indagine, per quanto semplificata e per grandi linee, dobbiamo necessariamente spogliarci della nostra veste cotidiana , ed indossare abiti più consoni, come diceva il Machiavelli, che nella sua lettera a Francesco Vettori, in cui presentava la sua opera celeberrima Il Principe, così si esprimeva:
“…
Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro.
…”

Anche noi ci fermiamo, metaforicamente, sul nostro uscio, che è l’uscio della Civiltà Occidentale Moderna.
E ci spogliamo, metaforicamente, della nostra veste cotidiana, piena di fango et di loto, ed indossiamo panni reali et curiali.
E così, rivestiti condecentemente, entriamo nelle antique corti delli antiqui uomini per chieder loro ragione delle loro actioni.
La prima delle antique corti sarà, inevitabilmente, la Grecia antica. La prima perché è quella a noi più vicina. Ma in seguito occorre andare lontano. Molto lontano.
Iniziamo con due interessanti articoli ( i grassetti, i corsivi ed i periodi evidenziati sono stati qui inseriti per per far cogliere meglio alcuni profondi significati, e sono assenti nelle versioni originali). Uno riguarda la concezione del tempo nell'antica Grecia, l'altro la dottrina indù dei cicli cosmici.


Appunti e spunti sul tempo, dall'antica Grecia
di Antonio Avitabile

Nel Timeo, Platone distingue due tipi di tempo, creando delle interessanti relazioni tra loro.
Il primo è il tempo eonico (aion deriva da tò aei on= ciò che è sempre), che egli definisce il tempo dell'essere, inteso nella sua durata non frazionabile;
Il secondo è il chronos, vale a dire il tempo del divenire, inteso nel suo fluire come sequenza di momenti.
Mentre il primo è un tempo dell'essere senza divenire, l'altro è un tempo del divenire senza essere.
L'essenza dell'aion si percepisce attraverso la forma più alta di conoscenza, la noèsis, e si esprime attraverso il logos.
Il tempo del divenire si percepisce attraverso le sensazioni e si esprime tramite la doxa, l'opinione, secondo Platone il grado più basso della conoscenza.
Il momento di fusione tra questi due mondi si avvera attraverso il simbolo (che significa appunto incontro): la conoscenza mitica è una forma superiore di conoscenza; il mitos per molti versi è sinonimo di logos.
In altri termini, questa relazione potrebbe essere sintetizzata dalla frase di William Blake per cui "il tempo è un dono dell'eternità".
Fin dalla Teogonia di Esiodo, il tempo viene concepito ciclicamente: oltre le dottrine pitagoriche e il mito dell'eterno ritorno, viene testimoniato sia nella visione messianica della terza Roma, che nella stessa forma circolare della pianta delle chiese ortodosse (l'unico riferimento romano è il Pantheon, dedicato a tutti gli dei, il riferimento pratese è Santa Maria delle carceri). La circolarità del tempo ha un corrispondente della ciclicità dello spazio: Okeanos è il fiume che circonda le terre e si getta in sé stesso, in cielo è la via lattea a circondare la volta siderale.
L'atteggiamento verso il tempo era quindi molto diverso dal nostro, che in base a tradizioni giudaico-latine lo vediamo come una linea in evoluzione e ci sentiamo proiettati in avanti, verso il futuro. Per i greci, la nostra fronte è rivolta al passato, che noi conosciamo bene, e procediamo a ritroso, verso un futuro che non possiamo vedere. L'importanza vitale della memoria, sopratutto della nostra preesistenza, ritorna in varie dottrine filosofiche (Pitagora, Platone...) e misteriche. Talete affermava che il tempo è più saggio di tutti "poichè tutto rinviene": il segreto è proprio la facoltà di rinvenire attraverso il tempo.Quanto ciò sia arduo emerge dal frammento eracliteo per cui "non ci si bagna due volte nello stesso fiume", non solo perchè l'acqua del fiume è diversa, ma anche perchè noi stessi siamo cambiati... e quindi possiamo esprimere solo la doxa, non il logos. A tale proposito, sant'Agostino affermava che "se non mi chiedi cos'è, conosco il tempo, se me lo chiedi, lo ignoro".
L'aion è quindi il tempo divino, infrazionabile nella sua durata, che racchiude tutti i passati, i presenti ed i futuri. E' un tempo metafisico al quale si può adattare la massima di Senofonte riguardo ai miti: "queste cose non furono mai, per questo sono sempre".
Chronos è invece il tempo che si può misurare e quindi determinare (il verbo che ne deriva, chronizo, significa indugiare. In greco vi è un'assonanza col nome Kronos, il latino Saturno (da cui deriva kronicos, cioè riferito a Krono, sovrano dell'età dell'oro e, di conseguenza, ricorrente; in linea appunto con l'idea ciclica di cui ho parlato). Questa assonanza non è affatto casuale poichè, con la fine del regno di Kronos cessa appunto la beata età dell'oro ed il mondo precipita nel tempo, deteriorandosi fino all'attuale età del ferro.
Esistono inoltre altri termini che denotano parti o caratteristiche del tempo: kairos si può tradurre come momento propizio, opportunità. Da notare che su una delle colonne di Delfi, i sette sapienti avevano fatto incidere la massima "gnoti kairon", riconosci il momento giusto, quasi a voler ricondurre nel regno della sapienza un frammento di quel tempo che Platone assoggettava alla doxa.
Scholè è invece il tempo che trascorre senza assillo, non soggetto alle angosce della necessità, portando in sé l'idea dell'indugio, dell'ozio, della lentezza. La parola è sinonimo di applicazione, studio e, quindi, di scuola, anche se il termine scholasticos aveva in greco una accezione negativa, come ad indicare chi perde tempo.
L'accezione positiva del tempo dedicato a se stessi, senza ambasce, è rimarcato anche in latino, ove al termine otium si contrappone il negotium (nec otium), vale a dire il tempo dedicato al disbrigo degli affari e alle necessità.
Ora indicava invece un periodo di tempo ben definito, una stagione per lo più. Le Ore nella mitologia ellenica raffiguravano le tre stagioni (primavera, estate e autunno/inverno) incarnandone le caratteristiche della crescita, del rigoglio e del riposo. A tale proposito si potrebbero fare due osservazioni: la prima sulla corrispondenza delle stagioni alle età dell'uomo, come nel famoso enigma della Sfinge; la seconda su un'altra astrazione mitica, la Chimera, un mostro nel quale coesistevano contemporaneamente ed incongruentemente tre animali (capra/primavera, leone/estate e serpente/autunno-inverno), come a voler simboleggiare l'impossibilità di cogliere il tempo nel suo insieme. Non a caso il termine chimera designa qualcosa di inaccessibile nel suo essere fantastico.
Un altro termine, epochè, corrisponde al nostro per definire un periodo di tempo, un'epoca. Con la stessa parola si indica anche la sospensione, o in termini filosofici quella sospensione del giudizio che per gli scettici era il passaggio obbligato per il dubbio e per la conoscenza filosofica.

-------------------------------------------------------------------------------------
Quello che segue è un articolo di Guénon sulla Dottrina indù dei cicli cosmici. Da notare l'armonia e la matematica che si cela dietro alle suddivisioni temporali.

Articolo pubblicato in inglese sul Journal of the Indian Society of Oriental Art, numero di giugno-dicembre 1937, dedicato a A. K. Coomaraswamy, in occasione del suo sessantesimo compleanno. Ripubblicato in Études Traditionnelles, ottobre 1938.


ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA DOTTRINA DEI CICLI COSMICI

René Guénon
________________________________________
Ci è stato chiesto talvolta, a proposito degli accenni che siamo stati talvolta indotti a fare in diverse occasioni alla dottrina indù dei cicli cosmici ed a quelle equivalenti che si ritrovano in altre tradizioni, di darne, se non una esposizione completa, almeno un quadro d'insieme, a grandi linee.
Per la verità, ci sembra questo un compito pressoché impossibile, non solo per la intrinseca complessità dell'argomento, ma anche e soprattutto per le grandi difficoltà che si incontrano ad esprimere questi concetti in una lingua europea, in maniera tale, da renderli comprensibili alla mentalità occidentale attuale, completamente disabituata ad un tal genere di considerazioni. Tutto ciò che si può fare, a nostro avviso, è cercare di chiarire certi punti, con delle osservazioni come quelle che seguono, alle quali non si può chiedere altro che di fornire delle semplici indicazioni circa il senso della dottrina in questione, piuttosto che darne una spiegazione esauriente.
Considereremo un ciclo, nell'accezione più ampia del termine, come la rappresentazione del processo di sviluppo di uno stato qualsiasi della manifestazione, oppure, se si tratta di cicli minori, di qualcuna delle modalità più o meno limitate e particolari di tale stato. D'altronde, in virtù della legge di corrispondenza che collega tutte le cose nell' Esistenza universale, vi è sempre e necessariamente una certa analogia sia fra i diversi cicli dello stesso ordine, sia tra i cicli principali e le loro suddivisioni secondarie. E' quindi lecito, parlandone, impiegare in un unico modo di espressione, anche se questo spesso dovrà essere inteso solo simbolicamente, l'essenza stessa di ogni simbolismo fondandosi appunto sulle corrispondenze e sulle analogie che realmente esistono nella natura delle cose. Alludiamo qui soprattutto alla forma cronologica assunta dalla dottrina dei cicli: Poiché il Kalpa rappresenta lo sviluppo totale di un mondo, vale a dire uno stato o grado dell'esistenza universale, è evidente che si potrà parlare letteralmente della durata di un Kalpa, valutata in base ad una qualsiasi unità di misura del tempo, soltanto se si tratterà di un Kalpa che si riferisce ad uno stato in cui il tempo è una della condizioni determinanti, quale è propriamente il nostro mondo. In ogni altro caso, tutte le considerazioni di durata e di successione non potranno avere che un valore meramente simbolico e dovranno essere trasposte analogicamente, la successione temporale diventando allora solo una immagine della concatenazione, insieme logica e ontologica, di una serie extra-temporale di cause ed effetti. Tuttavia, poiché il linguaggio umano non può esprimere direttamente condizioni diverse da quelle proprie del nostro stato, un simbolismo del genere è per ciò stesso sufficientemente giustificato e dev'essere considerato perfettamente naturale e normale.

Non abbiamo intenzione, in questa sede, di occuparci dei cicli più ampi, come i Kalpa; ci limiteremo a quelli che si svolgono entro il nostro Kalpa, cioè ai Manvantara e alle loro suddivisioni. A questo livello, i cicli presentano un carattere sia cosmico che storico, poiché riguardano particolarmente l'umanità terrestre, pur essendo nello stesso tempo collegati a tutti gli avvenimenti che si producono nel nostro mondo al di fuori di essa. In ciò non vi è nulla di sorprendente, perché il considerare la storia dell'uomo come isolata in qualche modo da tutto il resto è un'idea esclusivamente moderna, in netta opposizione con l'insegnamento di tutte le tradizioni, che, al contrario, sono unanimi nell'affermare l'esistenza di una correlazione necessaria e costante tra l'ordine cosmico e quello umano.
I Manvantara, o ere dei successivi Manu, sono quattordici e formano due serie settenarie, di cui la prima comprende i Manvantara trascorsi e quello presente, la seconda i Manvantara futuri. Queste due serie, di cui, come abbiamo visto, una si riferisce al passato, con il presente che ne è la risultante immediata, e l'altra al futuro, possono essere messe in corrispondenza con quelle dei sette Swarga e dei sette Patala, i quali rappresentano rispettivamente l'insieme degli stati superiori ed inferiori allo stato umano, se ci si pone dal punto di vista della gerarchia dei gradi dell' Esistenza ovvero della manifestazione universale, o l'insieme di quelli anteriori e posteriori a questo stesso stato, nel caso invece che ci si ponga dal punto di vista del concatenamento causale dei cicli, descritto simbolicamente, come sempre, mediante l'analogia di una successione temporale. Quest'ultima angolazione è evidentemente quella che qui più interessa: essa infatti ci consente di vedere, all'interno del nostro Kalpa, in virtù della relazione analogica sopra menzionata, un'immagine ridotta di tutto l'insieme dei cicli della manifestazione universale e, in questo senso, si potrebbe dire che la successione dei Manvantara rappresenta in certo qual modo un riflesso degli altri mondi nel nostro. D' altronde, si può ancora notare, a conferma di ciò, che le parole Manu e Loka sono entrambe designazioni simboliche del numero 14; parlare a questo proposito di una semplice coincidenza equivarrebbe a dar prova della completa ignoranza delle ragioni profonde, inerenti ad ogni simbolismo tradizionale. Si può ravvisare ancora un'altra correlazione con i Manvantara, quella relativa ai sette Dwipa o regioni in cui si divide il nostro mondo. Infatti, sebbene questi siano rappresentati, conformemente al senso proprio della parola che li designa, coma altrettante isole e continenti distribuiti in un certo modo nello spazio, bisogna guardarsi da un'interpretazione strettamente letterale, che li identifichi senz'altro alle diverse zone della terra attualmente conosciuta; essi, in effetti non emergono simultaneamente, bensì successivamente, il che vuol dire che uno solo di essi si manifesta nel dominio sensibile nel corso di un certo periodo. Se questo periodo è un Manvantara, si deve concludere che ogni Dwipa dovrà apparire due volte nel Kalpa, ossia una volta in ciascuna delle due serie settenarie di cui dicemmo poc'anzi; e dal rapporto fra queste due serie, che si corrispondono inversamente, come avviene in tutti i casi simili, e in particolare per quelle degli Swarga e dei Patala, si può dedurre che l'ordine d' apparizione dei Dwipa dovrà ugualmente, nella seconda serie, essere l'inverso di quello che è stato nella prima. Si tratta, in definitiva, di differenti stati del mondo terrestre, piuttosto che di regioni vere e proprie. Il Jambu-Dwipa rappresenta in realtà l' intera superficie terrestre nel nostro stato attuale; e se di esso si dice che si estende a sud del Meru, cioè della montagna assiale intorno alla quale si compiono le rivoluzioni del nostro mondo, è proprio perché, essendo il Meru simbolicamente identico al Polo Nord, effettivamente, rispetto a questo, tutte le terre sono situate a sud. Per dare maggiori spiegazioni sull'argomento, bisognerebbe poter sviluppare il simbolismo delle direzioni dello spazio, secondo cui sono ripartiti i Dwipa, come pure i rapporti di corrispondenza esistenti tra questo simbolismo spaziale e il simbolismo temporale sul quale poggia tutta la dottrina dei cicli; ma poiché non ci è possibile inoltrarci in queste considerazioni che da sole richiederebbero un intero volume, dobbiamo accontentarci di queste sommarie indicazioni, che, del resto, potranno facilmente completare per proprio conto coloro che hanno già qualche conoscenza in materia.
Queste considerazioni concernenti i sette Dwipa trovano poi conferma nei dati concordanti di altre tradizioni, nelle quali si parla ugualmente di sette terre, segnatamente nell'esoterismo islamico e nella Kabbala ebraica: in quest'ultima, le sette terre, pur essendo raffigurate esteriormente come altrettante ripartizioni della terra di Canaan, sono poste in relazione con i regni dei sette re di Edom, i quali corrispondono manifestamente ai sette Manu della prima serie. Queste terre, inoltre, sono tutte comprese nella Terra dei Viventi, che rappresenta lo sviluppo completo del nostro mondo, realizzato in modo permanente nel suo stato principale. Si può rilevare qui la coesistenza di due punti di vista: quello della successione, che si riferisce alla manifestazione in se stessa, e quello della simultaneità, che si riferisce al suo principio, o a ciò che si potrebbe chiamare il suo archetipo. In fondo, la corrispondenza di questi due punti di vista equivale, in certo qual modo, a quella tra simbolismo temporale e simbolismo spaziale, cui abbiamo già accennato parlando dei Dwipa della tradizione indù.
Nell'esoterismo islamico le sette terre rappresentano, forse più esplicitamente, altrettante tabaqat o categorie dell'esistenza terrestre, che coesistono o si compenetrano a vicenda, di cui soltanto una può essere attualmente colta dai sensi, mentre le altre sono allo stato latente e soltanto eccezionalmente possono essere percepite, per di più in speciali condizioni. Anche in questo caso, esse si manifestano esteriormente, una per volta, nei diversi periodi che si succedono nel corso della intera durata di questo mondo. D'altra parte, ognuna delle sette terre è retta da un Qutb o Polo, che corrisponde chiaramente al Manu del periodo durante il quale la rispettiva terra si manifesta. Questi sette Aqtab sono subordinati al Polo supremo, così come i diversi Manu lo sono all' Adi-Manu o Manu primordiale; ma, in ragione della coesistenza delle sette terre, esercitano anche, sotto un certo aspetto, le loro funzioni in modo permanente e simultaneo. Si noti, per inciso, che la designazione Polo è strettamente legata al simbolismo polare del Meru menzionato poco sopra, il quale, nella tradizione islamica, ha per esatto equivalente il monte Qaf. Aggiungiamo che i sette Poli terrestri vengono considerati come il riflesso dei sette Poli celesti, che presiedono rispettivamente ai sette cieli planetari; e questo fa naturalmente pensare ad una corrispondenza con gli Swarga della dottrina indù, dimostrando la perfetta concordanza che esiste, al riguardo, fra le due tradizioni.
Consideriamo ora le suddivisioni di un Manvantara, cioè i quattro Yuga. Faremo anzitutto notare, senza insistervi troppo, che tale divisione quaternaria di un ciclo è suscettibile di molteplici applicazioni, e che in effetti la si ritrova in molti cicli particolari: come esempio, possiamo citare le stagioni dell'anno, le settimane del mese lunare, le quattro età della vita umana; ed anche qui vi è corrispondenza con il simbolismo spaziale, riferito, in tal caso, principalmente ai quattro punti cardinali. D'altro canto, si è spesso rilevata la manifesta equivalenza dei quattro Yuga con le quattro età dell'oro, dell'argento, del rame e del ferro, quali furono conosciute dell'antichità greco-latina: in entrambe le rappresentazioni, ogni periodo è ugualmente caratterizzato da un processo di degenerazione, rispetto al precedente. Questo processo,che si oppone nettamente all'idea di quale la concepiscono i moderni, si spiega semplicemente con il fatto che ogni svolgimento ciclico, vale a dire ogni processo di manifestazione, in cui è implicito necessariamente un allontanamento graduale dal principio, rappresenta realmente una discesa: è questo, del resto, il significato reale della caduta nella tradizione giudaico-cristiana.
La progressiva degenerazione da uno Yuga all' altro si accompagna ad una diminuzione della rispettiva durata, la quale è considerata incidere sulla lunghezza della vita umana; ma quel che più importa, da questo punto di vista, è il rapporto tra le rispettive durate dei diversi periodi. Se la durata complessiva del Manvantara è rappresentata dal numero 10, quella del Krita-Yuga o Satya-Yuga lo sarà dal 4, quella del Treta-Yuga dal 3, quella del Dwapara-Yuga dal 2 e quella del Kali-Yuga dall'1. Questi valori corrispondono altresì al numero delle zampe del toro simbolico di Dharma che si raffigurano poggiate sulla terra durante gli stessi periodi.
La ripartizione del Manvantara si effettua quindi secondo la formula 10= 4+3+2+1 che è l'inverso della Tetraktys pitagorica: 1+2+3+4=10. Quest'ultima formula rappresenta ciò che nel linguaggio dell'ermetismo occidentale viene denominato la circolatura del quadrato, e l'altra il problema inverso della quadratura del cerchio, che esprime appunto la relazione tra la fine e l'inizio del ciclo, cioè l'integrazione del suo sviluppo totale. E' questo un simbolismo aritmetico e geometrico ad un tempo, che qui possiamo soltanto indicare di sfuggita, per non allontanarci troppo dall'argomento principale. Quanto alle cifre indicate in diversi testi, in relazione alla durata del Manvantara e, conseguentemente, a quella degli Yuga, bisogna evitare di considerarle cronologicamente nel significato ordinario della parola, vale a dire come se esprimessero numeri di anni, da prendersi alla lettera. E' questo d'altronde il motivo per cui le apparenti variazioni tra i dati non implicano in fondo una reale contraddizione. Per le ragioni che esporremo in seguito, la sola di queste cifre da prendere in considerazione è 4.320, dovendosi escludere i vari zeri che si fanno seguire a questo numero, e che verosimilmente sono destinati soprattutto a trarre in inganno coloro che volessero dedicarsi a certi calcoli. Tale precauzione, a prima vista, può sembrare strana, ma poi si può facilmente comprendere: se la effettiva durata del Manvantara fosse nota e se, inoltre, fosse possibile determinare con esattezza il suo punto di partenza, chiunque potrebbe senza difficoltà arrivare a dedurre la previsione di particolari avvenimenti futuri; ora, nessuna tradizione ortodossa ha mai incoraggiato studi che permettessero all'uomo di arrivare a conoscere l'avvenire, in misura più o meno ampia, tale conoscenza presentando praticamente molti più inconvenienti che vantaggi reali. E' questo, dunque, il motivo per cui il punto di partenza e la durata del Manvantara sono stati sempre più o meno accuratamente dissimulati, sia aggiungendo o sottraendo un determinato numero di anni ai dati reali, sia moltiplicando o dividendo la durata dei periodi ciclici in modo da mantenere soltanto le loro esatte proporzioni; per di più, diremo che certe corrispondenze, per motivi analoghi, talvolta sono state perfino invertite.
Se la durata del Manvantara è data dal numero 4.320, quelle dei quattro Yuga saranno date rispettivamente da 1.728, 1.296, 864, 432; ma per quale numero si dovranno moltiplicare queste cifre per ottenere una durata in anni? Si può facilmente notare come tutti questi numeri ciclici siano in rapporto diretto con la divisione geometrica del cerchio: così 4.320= 360*12; del resto, non vi è nulla di arbitrario o di meramente convenzionale in questa divisione, poiché, a causa della corrispondenza tra l'aritmetica e la geometria, è normale che tale divisione si effettui secondo multipli di 3, 9, 12, mentre la divisione decimale è quella che propriamente si addice alla linea retta. Questa osservazione, sebbene fondamentale, non permetterebbe tuttavia di andare molto lontano nella determinazione dei periodi ciclici, se non si sapesse che la base principale di questi, nell'ordine cosmico, è il periodo astronomico della precessione degli equinozi, la cui durata è di 25.920 anni, per cui lo spostamento dei punti equinoziali è di un grado ogni 72 anni. Questo numero 72 è precisamente un sottomultiplo di 4.320= 72*60, e 4.320 è a sua volta un sottomultiplo di 25.920= 4.320*6; e il fatto che per la precessione degli equinozi si trovino i numeri connessi alla divisione del cerchio costituisce una prova ulteriore del carattere veramente naturale di questa divisione. Ma il problema che ora si pone è il seguente: quale multiplo o sottomultiplo del suddetto periodo astronomico corrisponde effettivamente alla durata del Manvantara?
Il periodo che nelle diverse tradizioni appare con maggior frequenza non è tanto quello della precessione degli equinozi quanto la sua metà: è questo in effetti il periodo che corrisponde al grande anno dei Persiani e dei Greci, spesso calcolato approssimativamente in 12.000 o 13.000 anni, e la cui esatta durata è di 12.960 anni. Data l'importanza del tutto particolare attribuita a tale periodo, si deve presumere che il Manvantara debba comprendere un numero intero di grandi anni: quanti precisamente? A questo proposito, al di fuori della tradizione indù, troviamo perlomeno un'indicazione precisa, abbastanza plausibile da poter essere accettata, questa volta alla lettera: presso i Caldei, la durata del regno di Xisuthros, che è manifestamente identico a Vaivaswata, il Manu dell'era attuale, era fissata in 64.800 anni, cioè esattamente cinque grandi anni. Per inciso, facciamo notare che il numero 5, essendo quello dei bhutas o elementi del mondo sensibile, deve avere necessariamente una speciale importanza dal punto di vista cosmologico, il che tende a confermare la fondatezza di una tale valutazione; si potrebbe anzi ravvisare una certa correlazione tra i cinque bhutas e i cinque grandi anni successivi di cui si tratta, tanto più che nelle antiche tradizioni dell'America centrale si trova una evidente connessione fra gli elementi e particolari periodi ciclici; è questo però un problema che richiederebbe una disamina più approfondita. Comunque sia, se è questa effettivamente la durata del Manvantara, e se si continua a prendere come base il numero 4.320, che è esattamente un terzo del grande anno, è dunque per 15 che questo numero dovrà essere moltiplicato, per avere la durata del Manvantara. I cinque grandi anni saranno naturalmente ripartiti nei quattro Yuga in modo diseguale, ma secondo rapporti semplici: il Krita-Yuga ne conterrà 2, il Treta-Yuga 1 e mezzo; il Dwapara-Yuga 1 e il Kali-Yuga mezzo; questi numeri sono precisamente la metà di quelli che avevamo trovato, quando consideravamo la durata del Manvantara rappresentata dal numero 10. Calcolati in anni ordinari, i quattro Yuga avranno una durata rispettivamente di 25.920, 19.440, 12.960, e 6.480 (anni), per un totale di 64.800 anni. Come si vede, queste cifre si mantengono in limiti perfettamente verosimili, potendo ben corrispondere alla età reale della presente umanità terrestre.
Non andremo oltre con queste considerazioni, poiché, per quanto concerne il punto di partenza del nostro Manvantara, e, conseguentemente, l'esatto punto del suo corso, nel quale ci troviamo attualmente, non è nostra intenzione arrischiarci a determinarli. Sappiamo già, per i riferimenti che ci danno tutte le tradizioni, di essere ormai da tempo nel Kali-Yuga; possiamo aggiungere, senza tema di errori, che siamo anzi in una fase avanzata di esso, fase che viene descritta nei Purana con particolari che rispondono in maniera davvero sorprendente ai caratteri della epoca attuale; ma non sarebbe forse imprudente voler aggiungere altre precisazioni, ed inoltre ciò non corrisponderebbe inevitabilmente ad una di quelle predizioni tanto avversate, non senza motivo, dalla dottrina tradizionale?

Articolo pubblicato in inglese sul Journal of the Indian Society of Oriental Art, numero di giugno-dicembre 1937, dedicato a A. K. Coomaraswamy, in occasione del suo sessantesimo compleanno. Ripubblicato in Études Traditionnelles, ottobre 1938.
 

celeron

Main Trend Analysis
manovale ha scritto:
se non sbaglio anche i maya avevano cicli a 400 anni :rolleyes:

Il sistema di computo del tempo dei Maya e, più in generale, delle popolazioni mesoamericane, con la sua eccezionale ricchezza e complessità, merita un discorso a parte, con un debito approfondimento. Esso non mirava esclusivamente alla registrazione ed alla misurazione dei fenomeni astronomici e delle scadenze temporali.
Questo sistema aveva il più nobile scopo di conferire senso alla realtà ed alla successione degli eventi di cui l’uomo era testimone.
Le popolazioni mesoamericane non si chiedevano, come facciamo noi, "che giorno è", ma si chiedevano "che tipo di giorno è".

Quello che segue è uno studio, frutto di ricerche personalmente effettuate nel corso di questi anni, che può essere un primo elemento introduttivo sull'argomento, la cui vastità e complessità meriterebbe ben altro spazio e impegno.

CONSIDERAZIONI SULLA MISURAZIONE CRONOMETRICA E SUI CALENDARI DELLE CIVILTA' MESOAMERICANE


Nel corso della storia plurimillenaria dell’uomo, la misurazione del tempo non è mai stata considerata un’attività avulsa, separata dall’insieme delle credenze e dei modelli di comportamento di una civiltà.
Al contrario essa è sempre stata funzionale ai principi etici e al quadro ideologico che sono alla base della “sapienza” di un popolo.
Lo studio comparato dei diversi sistemi di misurazione del tempo, sia passati che presenti, dimostra come essi si siano costantemente evoluti a partire da iniziali esigenze di carattere simbolico o “religioso”.
Alcuni studiosi sostengono che, proprio per ovviare all’angoscia generata dalla percezione dell’irreversibilità del tempo e della vanità dell’esistenza, sarebbero sorti i “pregiudizi religiosi” cui si deve l’unificazione, apparentemente ingiustificabile sul piano logico, di avvenimenti ricorrenti e avvenimenti che, avendo il carattere dell’unicità, non si ripetono.
In questo modo gli eventi irripetibili, come la nascita di un singolo individuo o la sua morte, si inseriscono nel paradigma concettuale degli eventi ciclici, rendendo psicologicamente meno inaccettabile l’esperienza dell’entropia e dell’irreversibilità dell’esistenza.
Questa premessa non esclude affatto che, anche presso i popoli più arcaici, la scansione del tempo abbia avuto primarie finalità pratiche, riguardanti l’efficace svolgimento delle attività produttive e sociali.
Ma queste erano solo alcune delle finalità, che non possono certamente esaurire il complesso degli scopi che le antiche civiltà si prefiggevano con la realizzazione di calendari palesemente sproporzionati e sovradimensionati, rispetto alle pur molteplici e complesse esigenze cronometriche che esse potevano avere.
Le testimonianze storiche ed etnografiche confermano come sia abbastanza diffuso il nesso tra l’aumento della complessità sociale, la diversificazione delle attività produttive e lo sviluppo delle conoscenze cronometriche. Nelle società tradizionali, prive di scrittura e scarsamente differenziate nel loro interno, non si rinviene alcuna idea astratta di tempo, inteso come flusso uniforme, continuo ed omogeneo che può essere misurato prescindendo dagli eventi sociali che di fatto ne scandiscono l’esperienza.
Esse fondano la propria concezione del tempo essenzialmente sulle relazioni con l’ambiente, basate sulla pastorizia e l’agricoltura, e sui rapporti sociali. Per esse il calendario è una relazione tra un ciclo di attività e un ciclo concettuale, e i due cicli non sono separabili .Il tempo è solo una relazione fra le attività. Quanto più uniformi sono le attività dei membri di un gruppo, tanto meno essi avvertono la necessità di elaborare un sistema di computo del tempo che ne trascenda la specificità. Non è infatti un caso che le forme più astratte e sistematiche di cronometria siano nate laddove la differenziazione delle attività sociali ha favorito un sistema generale di coordinazione temporale.
Tuttavia, non è esatto affermare che il progredire di queste forme più evolute di cronometria sia scaturita principalmente da esigenze di tipo pratico: troppo numerosi sono gli esempi di calendari sovradimensionati rispetto ai fabbisogni cronometrici delle società che li hanno prodotti, o che li hanno utilizzati. Tanto più che, nelle forme più elaborate, raramente la conoscenza e l’impiego dei calendari si sono estesi al di fuori di una ristretta cerchia di specialisti, creando spesso un sapere esoterico il cui possesso è in grado di conferire autorità e potere. Inoltre c’è da fare un’altra importante considerazione. Poichè una delle principali funzioni dei calendari è “qualificare” gli eventi, cioè attribuire loro “un significato”, il controllo di questo significato diventa un’arma potentissima sul piano politico, che consente di dare o sottrarre legittimità a chi di quegli eventi è o è stato protagonista.
Alla luce di queste considerazioni il sistema cronometrico dei Maya e, più in generale, delle civiltà mesoamericane appare uno dei più significativi. Esso non soltanto rappresenta una delle massime realizzazioni intellettuali dei popoli nativi di quella parte del pianeta, ma testimonia la preminenza che l’attribuzione di senso alle scansioni temporali assume rispetto alla loro pura misurazione. Il significato del tempo prevale sulla sua misura. È evidente la tendenza a ricondurre l’accurata registrazione dei più diversi fenomeni che ricorrono nella natura a sistemi esplicativi di portata universale, capaci di stabilire, se non rigorose leggi causali, quantomeno illuminanti relazioni di corrispondenza.
Il calendario mesoamericano ha accompagnato, sin dalla loro origine, le grandi civiltà che dominarono gli attuali Messico, Honduras, Belize e Guatemala (cioè l’area culturale denominata Mesoamerica) fino alla conquista europea: la sua ideazione si perde nella notte dei tempi.
Alcuni lo fanno risalire al primo millennio avanti Cristo, ad opera dalle popolazioni del Messico sudorientale (gli Olmechi della costa del Golfo, gli Zapotechi di Monte Albán), che parallelamente svilupparono la numerazione vigesimale e la scrittura ideografica. Esso testimonia lo straordinario interesse con cui da sempre gli abitanti della Mesoamerica osservarono e registrarono il ripetersi ciclico dei fenomeni astronomici, facendo del computo del tempo uno dei pilastri della loro religione e della loro ideologia.
Esso servì alle élites per orientare la propria condotta, registrare le proprie gesta e legittimare il proprio potere; fu la principale chiave di lettura delle più svariate tipologie di eventi, sia storici sia naturali, tanto da sopravvivere per oltre quattro secoli ai tentativi di estirpazione messi in atto dai conquistatori spagnoli.
E se ancor oggi in diverse comunità indigene è possibile osservarne la sopravvivenza accanto al calendario gregoriano, è proprio perché questo, nella sua manifesta inferiorità, non ne ha potuto soppiantare che in minima parte le funzioni originarie.
Ciò che suscita stupore e ammirazione è il fatto che i calendari mesoamericani rivelano un’accuratissima conoscenza dei movimenti dei corpi celesti, la cui osservazione avveniva però senza l’ausilio di strumenti ottici, ma utilizzando traguardi e marcatori naturali e artificiali, come montagne, monumenti ed edifici sacri, costruiti ad hoc, che permettevano di registrarne con estrema precisione il passaggio per lo zenit e il sorgere e il tramonto in corrispondenza di determinati punti dell’orizzonte. Tutto ciò superando le difficoltà d’osservazione imposte da un clima tropicale che, specie in certe regioni, riduceva drasticamente i periodi di visibilità dei fenomeni celesti. Infatti nei bassopiani maya, il cielo è coperto da nubi per una buona parte dell’anno. Per registrare i risultati delle proprie osservazioni ed effettuare i calcoli matematici su cui si basava il calendario, i popoli mesoamericani si avvalsero di un sistema di notazione vigesimale fatto di punti e linee (in area maya, anche di un simbolo avente un valore simile allo “zero”), oltre che di vari sistemi di scrittura, da quelli ideografici ad altri propriamente fonetici.
E’ giusto affermare che il calendario dei Maya risale ad un’epoca precedente quella storica?
Innanzitutto bisogna stabilire cosa si intende per calendario dei Maya. Le popolazioni mesoamericane, pur con alcune differenze locali non affatto trascurabili, articolavano il loro calendario in due sistemi di computo, o cicli, distinti e paralleli, che facevano scorrere lungo un terzo computo, denominato il Lungo Computo.
Uno dei due sistemi di computo, l’anno vago, era quello corrispondente all’anno solare (detto xihuitl dagli Aztechi e haab dai Maya), composto da 18 “mesi” di 20 giorni ciascuno, cui venivano aggiunti 5 giorni intercalari, reputati infausti: ognuno dei 365 giorni della somma risultante era contraddistinto da un numero (da 1 a 20) e dal nome del “mese”, esattamente come nel nostro calendario (1 gennaio, 2 gennaio...30 settembre, 1 ottobre... ecc.).
In nahuatl, la lingua degli Aztechi, le più ricorrenti designazioni dei “mesi” (che potevano avere più di un nome) erano le seguenti: 1) Atlca-hualo “si ferma l’acqua”, 2) Tlacaxipehualiztli “scorticamento di uomini”, 3) Tozoztontli “piccola veglia”, 4) Huey tozoztli “grande veglia”, 5) Toxcatl “cosa secca”, 6) Etzalcualiztli “pasto di etzalli (pietanza di mais e fagioli freschi)”, 7) Tecuilhuitontli “piccola festa dei signori”, 8 ) Huey tecuilhuitl “gran festa dei signori”, 9) Miccailhuitontli “piccola festa dei morti”, 10) Huey miccailhuitl “grande festa dei morti”, 11) Ochpaniztli “spazzamento”, 12) Pachtontli “piccolo pachtli (Tillandsia usneoides, parassita arboreo)”, 13) Hueypachtli “grande pachtli”, 14) Quecholli “becco a spatola rosa (Ajaja ajaja Lin.)”, 15) Panquetzaliztli “levata delle bandiere”, 16) Atemoztli “caduta dell’acqua”, 17) Tititl “contrazione”, 18 ) Izcalli “ri-nascita”; i 5 giorni aggiuntivi erano detti Nemontemi “completare invano”.
Questo anno di 365 giorni viene chiamato “anno vago”, in quanto risulta più breve dell’esatta durata dell’anno astronomico; tuttavia, contrariamente a quanto avviene nel moderno calendario gregoriano con il bisestile, i popoli mesoamericani non hanno mai adottato l’uso di compensare lo sfasamento intercalando un giorno ogni quattro anni (pratica che avrebbe creato gravi squilibri nella corrispondenza dell’anno solare con gli altri cicli); di conseguenza, il calendario basato sull’anno vago accumulava 25 giorni di ritardo ogni 100 anni astronomici.Gli studiosi moderni hanno molto discusso intorno all’atteggiamento dei popoli mesoamericani nei confronti di questo sfasamento temporale: se per un verso vi è concordia circa il fatto che i Maya ne tenessero esattamente conto, pur senza praticare alcun “aggiustamento”, le opinioni divergono riguardo agli Aztechi e gli altri popoli del Messico centrale, che secondo alcuni avrebbero provveduto (anche se s’ignora in che modo) a mantenere la sincronia del calendario solare con le stagioni, mentre per altri avrebbero lasciato che esso accumulasse col tempo un consistente ritardo. In effetti, sull’anno solare si basavano le principali cerimonie religiose, molte delle quali erano legate alle attività di sussistenza e alle stagioni, e venivano celebrate per lo più al termine di ogni “mese” di 20 giorni. I nomi di alcuni dei “mesi” aztechi rivelano la chiara ispirazione ecologico-stagionale della loro denominazione, alludendo all’inizio o alla fine della stagione piovosa (atemoztli e atlcahualo), alle caratteristiche generali del clima (toxcatl) o ai prodotti stagionali (etzalcualiztli). Tuttavia, l’occasionale intercalazione di un giorno extra sarebbe stata in profondo contrasto con gli stessi principî ispiratori del complesso intreccio dei cicli calendarici mesoamericani, le cui finalità primarie non erano certo di pura misurazione del tempo astronomico.
Il secondo ciclo, noto come “computo dei giorni” (tonalpohualli in nahuatl, tzolkin in maya), di fondamentale importanza divinatoria e rituale, era il ciclo rituale di 260 giorni, ciascuno indicato dalla combinazione di un numero da 1 a 13 con uno di 20 simboli o “nomi” calendarici. Per i popoli del Messico centrale, fra cui gli Aztechi, questi simboli erano, nell’ordine: Cipactli “alligatore”, Ehecatl “vento”, Calli “casa”, Cuetzpallin “lucertola”, Coatl “serpente”, Miquiztli “morte”, Mazatl “cervo”, Tochtli “coniglio”, Atl “acqua”, Itzcuintli “cane”, Ozomatli “scimmia”, Malinalli “erba ritorta”, Acatl “canna”, Ocelotl “giaguaro”, Cuauhtli “aquila”, Cozcacuauhtli “avvoltoio”, Ollin “movimento”, Tecpatl “selce”, Quiahuitl “pioggia”, Xochitl “fiore”; al giorno “1 alligatore” seguivano così quelli “2 vento”, “3 casa”, “4 lucertola”, ecc., fino a “13 canna”, dopodiché la serie dei numeri ricominciava dal 14º segno, con “1 giaguaro”, e così via di seguito; perché si ripresentasse la data “1 alligatore” doveva trascorrere una sequenza completa di 13 x 20 = 260 combinazioni differenti.
Le prime testimonianze archeologiche di questo ciclo rituale di 260 giorni risalgono al VI secolo a.C. e precedono nettamente quelle del calendario “solare” di 365 giorni, a riprova che anche in Mesoamerica la nascita del calendario ciclico si accompagnò a istanze di carattere innanzitutto rituale e divinatorio e non meramente a esigenze cronometriche. Quanto ai processi logici che avrebbero portato alla creazione di un simile ciclo, che non ha alcuna apparente corrispondenza con i più cospicui fenomeni naturali, sono state formulate diverse ipotesi, nessuna delle quali si è per ora affermata in maniera definitiva. Tra di esse, alcune si rifanno a considerazioni di ordine astronomico, come il fatto che 260 giorni si approssimano alla durata media (263 gg.) della visibilità di Venere tra due occultamenti, oppure che essi coincidono con il periodo che - alla latitudine di due importanti insediamenti dei periodi pre-classico e classico (rispettivamente Izapa e Copán) - intercorre tra i due passaggi annuali del sole per lo zenit (il 30 aprile e il 13 agosto), un fenomeno cui in Mesoamerica si tributava grande attenzione; a questa seconda supposizione è stato però obiettato che, stando alle testimonianze archeologiche, il calendario rituale ebbe origine altrove e prima del fiorire di entrambi questi centri. Altre ipotesi prendono in considerazione la crescita e la maturazione del mais, che in certe parti della Mesoamerica ha una durata pressoché equivalente, ma si scontrano con la forte variabilità regionale del fenomeno, in netto contrasto con la generale diffusione del calendario rituale. Alla luce dell’etnografia contemporanea, sembra meritare maggior credito l’ipotesi “biologica”, in base alla quale il ciclo di 260 giorni avrebbe avuto come modello la durata della gestazione umana: diversi tra i gruppi indigeni che ancora utilizzano il calendario rituale, infatti, ne offrono una lettura fortemente antropocentrica, equiparando chiaramente la durata del calendario con la gravidanza e creando un’esplicita connessione tra il cosmo esterno e il microcosmo umano interno. Quale che ne sia stata l’origine prima, è assai probabile che il ciclo di 260 giorni abbia acquisito la sua straordinaria importanza cosmologica proprio in ragione della molteplicità di corrispondenze che esso rivelava di possedere con fenomeni appartenenti a più ordini del reale: astronomici, numerologici, agricoli e fisiologici.
Lo Tzolkin, nome Maya che significa "la distribuzione dei giorni", è quindi una combinazione di un ciclo di 13 giorni con un ciclo di 20 periodi (kin). Durante ogni anno Haab di 365 giorni scorre sempre uno Tzolkin di 260 giorni.
I Maya descrivono solitamente una data specificando la relativa posizione sia nello Tzolkin che nell' Haab, l'allineamento del Circolo Sacro e l'anno vago genera il ciclo congiunto denominato il Calendario Circolare.
Il diagramma in figura spiega graficamente come i calendari Tzolkin ed Haab si coordinano.

1126456756maya_calendario.png


La rotella più piccola con 260 (20x13) denti (sinistra) ha su ognuno il nome dei 260 giorni dell'anno Tzolkin e la rotella più grande con 365 denti (destra) ha in ogni interstizio il nome di ciascuna delle posizioni dell'anno Haab. Poiché l'anno Haab inizia sempre su una data 0 Popo e l'anno Tzolkin inizia solamente su un giorno chiamato Ik, Manik, Eb o Caban, quando 2 Ik è in congunzione con 0 Pop, la rotella A gira in senso orario e la rotella B gira in senso antiorario, si vede il nome del giorno Tzolkin che corrisponde ad ogni posizione Haab.

I kin
L'anno dei Maya ha un'unità base denominata Kin, parola che significa giorno, sole, ecc. Il calendario Tzolkin ha un ciclo di 20 nomi di giorni combinato con un ciclo di 13 numeri di giorno. Ciascuno di questi 20 nomi è viene rappresentato da un glifo e sono: Imix, Ik, Akbal, Kan, Chicchan, Cimi, Manik, Lamat, Muluc, Oc, Chuen, Eb, Ben, Ix, Men, Cib, Caban, Etznab, Cauac e Ahau.

Gli Uinal
L'anno Maya è diviso in 19 mesi, denominati Uinal, ciascuno ha un nome e un glifo (Vedi figura sotto). Di questi mesi, i primi diciotto hanno venti giorni e l'ultimo, denominato Uayeb, ha solo 5 giorni. I giorni dentro un mese sono numerati dallo 0 a il 19 con l'eccezione di Uayeb i cui giorno sono numerati dallo 0 al 4.


1126456975maya_uinal.png



Nell’insieme, lo scorrere parallelo dei due cicli di 260 e 365 giorni permetteva di designare ogni singolo giorno con quattro indicatori: il numero della serie di 13 e il simbolo della serie di 20 che costituivano il calendario rituale, più il numero della serie di 20 che formava il “mese” (con l’eccezione dei 5 giorni nefasti conclusivi) e il nome di questo: nell’esempio maya illustrato da J. Eric S. Thompson, alla data “rituale” “13 Ahau” si affianca quella “solare” “18 Cumku”.
Perché un giorno con la medesima denominazione globale potesse ripetersi, dovevano trascorrere 18.980 giorni, ovvero 73 cicli di 260 giorni e 52 cicli di 365 giorni. Era questo il periodo più lungo all’interno del quale la denominazione dei giorni non presentasse ripetizioni.
Non solo, era anche il periodo in capo al quale il giorno iniziale (o quello finale) dell’anno “vago” - quello che gli dava il nome - si ripresentava con la stessa denominazione rituale: infatti, poiché il minimo comune divisore dei due cicli di 365 e 260 giorni è 5, ne deriva che l’anno “vago” poteva avere inizio solo in corrispondenza di quattro dei 20 simboli calendarici (20 / 5 = 4), corrispondenti con il 3°, l’8° il 13° e il 18° della serie, che gli studiosi chiamano “portatori d’anno”; per gli Aztechi questi simboli erano “canna”, “selce”, “casa” e “coniglio”, mentre tra i Maya essi non furono ovunque gli stessi.
Questi quattro “portatori d’anno” si susseguivano con numeri crescenti, fino a completare quattro volte la serie di 13 (4 x 13 = 52): se ad esempio prendiamo come punto di partenza l’anno “1 selce”, la sequenza proseguiva con “2 casa”, “3 coniglio”, “4 canna”, “5 selce”, ecc., fino al 52° “13 canna”, dopodiché ci si ritrovava nuovamente con un anno “1 selce”.
Questo modo di designare gli anni ha un largo impiego nei monumenti e nei documenti pittografici che commemorano eventi rituali (come l’inaugurazione di monumenti o edifici sacri) o vicende storiche (come le conquiste militari), ove l’anno è indicato mediante la sua data rituale; ad esempio, l’esatta datazione di alcune delle fasi di costruzione del tempio principale di Tenochtitlan, la capitale azteca, è stata resa possibile dal rinvenimento di iscrizioni che recano i glifi “4 canna” e “3 casa”, corrispondenti rispettivamente al 1431 e al 1469. Il periodo di 52 anni era chiamato in nahuatl xiuhmolpilli legatura degli anni” e aveva grande importanza religiosa per i popoli mesoamericani, in particolare per quelli dell’altopiano centrale del Messico, che al suo scadere celebravano cerimonie volte a scongiurare il pericolo che il mondo avesse fine.
Il completamento del ciclo di 52 anni (che per i Nahua dell’altopiano centrale iniziava nell’anno “2 canna”) azzerava per così dire il calendario, riportandolo alla sua data iniziale.
E tuttavia non era questo il periodo di più lunga durata in vigore tra gli Aztechi, che prendevano in considerazione una misura ancora maggiore, formata da due serie di 52 anni (= 104); questa unità di tempo, detta huehuetiliztli vecchiaia”, aveva un importante significato astronomico e divinatorio, poiché comprendeva esattamente i multipli dell’anno tropico di 365 giorni (x 104), del calendario rituale di 260 giorni (x 146) e della rivoluzione sinodica di Venere, che ha una durata media di 584 giorni (x 65): in capo ai 37.960 giorni di questo mega-periodo, l’inizio di tutti e tre i cicli appena menzionati tornava ad avere la stessa denominazione rituale.
L’enorme attenzione che i sacerdoti prestavano ai fenomeni astronomici non si limitava, come si vede, ai moti solari, ma aveva tra i suoi oggetti privilegiati anche il pianeta Venere, che fin dal passato più remoto costituì una delle principali figure del pantheon mesoamericano. Nell’altopiano centrale questo astro veniva tra l’altro identificato con Quetzalcoatl, il “serpente piumato”, dio barbuto del vento e delle fasi intermedie, dei passaggi e degli annunci, creatore degli uomini e inventore delle arti, che nella sua manifestazione mattutina annunciava lo spuntar del sole, mentre in quella vespertina lo accompagnava nel tragitto notturno per il mondo dei morti. Quanto ai Maya, essi attribuivano enorme importanza alla sua prima apparizione come stella del mattino (corrispondente con la levata eliaca dopo la congiunzione inferiore) o come stella della sera (corrispondente con levata eliaca dopo la congiunzione superiore), collegandola strettamente alla guerra (in maniera per taluni aspetti simile a quanto avveniva con Marte nel mondo greco-romano): la recente decifrazione delle iscrizioni monumentali dei principali centri maya del periodo classico (IV-IX secc. d.C.), in cui sono registrate con esattezza le date di molte battaglie, sembra rivelare come la pianificazione di molte iniziative belliche avvenisse in corrispondenza con le principali fasi del ciclo di Venere.
Lo stesso orientamento di non pochi edifici sacri maya, come il cosiddetto “Palazzo del Governatore” di Uxmal o il celebre osservatorio astronomico di Chichén Itzá, detto il “Caracol”, si basa sull’allineamento con i punti dell’orizzonte corrispondenti agli estremi del moto apparente di Venere. L’adeguamento dell’urbanistica e dell’architettura ai fenomeni astronomico-calendariali, che è possibile rilevare in pressoché ogni centro della Mesoamerica, non era che una logica conseguenza della concezione cosmologica che postulava la profonda interconnessione - e dunque la necessaria armonizzazione - di tutti i diversi piani del reale.
Oltre che dagli edifici e dalla loro disposizione spaziale, l’enorme rilevanza di Venere è attestata dal notevole spazio che le è dedicato in molti dei codici pittografici pervenuti sino a noi: ad esempio sei delle 78 pagine del Codice di Dresda, uno dei soli quattro “libri” preispanici maya oggi esistenti, sono composte da tabelle numeriche dedicate alla minuziosa registrazione dei movimenti del pianeta. Ma anche alcuni fra i numerosi manoscritti pittografici del Messico centrale, come il Codice Borgia, contengono raffigurazioni simboliche estremamente elaborate della periodica scomparsa di Venere, del suo viaggio negli inferi e della sua ricomparsa dopo le due congiunzioni.
Il costante sforzo di cogliere nei ritmi del reale corrispondenze nascoste portò inoltre gli astronomi maya a calcolare anche i movimenti periodici di Marte, di cui registrarono con particolare attenzione le fasi di “moto retrogrado”, nelle quali il pianeta, sopravanzato dalla Terra nella rivoluzione intorno al sole, pare retrocedere nella sua parabola lungo l’eclittica. Ancora una volta fu loro possibile stabilire delle connessioni aritmetiche con gli altri cicli calendarici, in quanto i 780 giorni che intercorrono fra le metà di due periodi retrogradi marziani equivalgono esattamente a tre serie di 260 giorni .
Infine, tra i più appariscenti fenomeni astrali che attrassero l’attenzione dei sacerdoti-indovini, non potevano mancare le fasi lunari e le eclissi. In mancanza di frazioni e decimali, fu estremamente difficile per gli astronomi indigeni combinare con gli altri cicli il moto della luna, la cui parabola nel cielo tra l’altro segue percorsi ben più irregolari degli altri corpi celesti fin qui considerati. Ciò nondimeno, attraverso molti decenni di osservazioni i Maya riuscirono a elaborare un sistema di notazioni lunari che alternava periodi di 29 e di 30 giorni e che permetteva, con alcuni accorgimenti ulteriori, di ottenere nel lungo periodo un’ottima approssimazione alla durata media della lunazione: in termini decimali, il valore così calcolato risulta di 29,52592 giorni, di pochissimo inferiore rispetto a quello effettivo del mese sinodico, che è di 29,53059 giorni. Nelle innumerevoli iscrizioni calendariche contenute nei monumenti e negli oggetti maya del periodo classico, i glifi posti alla fine servono a segnalare l’età in giorni della luna e il corrispondente dio “signore della notte”.
Quanto alle eclissi, avvertite da tutti i popoli mesoamericani come eventi carichi di pericolo, in cui le divinità del sole e della luna rischiavano di essere divorate, i Maya seppero anche in questo caso calcolare la periodicità del fenomeno, che può verificarsi allorché vi sono una luna piena (e si avrà allora un’eclissi lunare) o una luna nuova (con un’eclissi solare) in concomitanza con il passaggio dell’orbita lunare per il piano dell’eclittica (il cosiddetto “passaggio nodale”). Benché non tutte le eclissi effettivamente prodottesi sul nostro pianeta fossero visibili dall’area maya, gli osservatori indigeni nondimeno scoprirono che i passaggi nodali hanno luogo con una ciclicità media di poco superiore a 173 giorni (173,31 per l’esattezza): otto pagine del già menzionato Codice di Dresda contengono una tabella con le previsioni delle possibili eclissi per un periodo di 33 anni. Ancora una volta, la durata del ciclo in questione venne ricondotta al calendario rituale, in base al fatto che tre di questi periodi di 173,3 giorni equivalgono a due volte 260 giorni (3 x 173,3 = 2 x 260 = 520 gg.). Una volta di più, lo tzolkin conferma le sue straordinarie capacità di armonizzare i diversi ritmi riscontrabili nella natura.
Tutti gli eventi naturali fin qui trattati, così come i cicli calendarici che vi si ispiravano, hanno il carattere della circolarità: è anzi difficile non rimanere colpiti dall’attenzione e dal rigore profusi dai sacerdoti-astronomi mesoamericani nel cercare le chiavi aritmetiche che permettessero loro di ricondurre i fenomeni più disparati a un unico grande pulsare cosmico. E non v’è dubbio che il principio dell’“eterno ritorno”, l’idea del costante riproporsi di circostanze, influssi - e dunque avvenimenti - del passato, fosse uno dei motivi-cardine del pensiero mesoamericano. Una simile prospettiva “circolare” consente di predisporre (o quantomeno trovare) una collocazione certa e collaudata, e dunque rassicurante, per ogni evento futuro; permette di scongiurare lo smarrimento e l’angoscia che sempre ingenera il manifestarsi dell’ignoto. Ma l’adozione di calendari ciclici comporta anche dei problemi per l’individuazione di date precise. A quale delle molte sequenze di 52 anni assegnare l’anno in cui si diceva fosse avvenuto un certo fatto del passato? Un sistema che ripropone con scadenze relativamente brevi le medesime date non facilita certo la corretta registrazione delle sequenze di eventi, tanto storici quanto naturali. E gli stessi popoli mesoamericani che elaborarono il sistema dei calendari basato sulla rotazione parallela dell’anno “vago” e del ciclo rituale di 260 giorni non mancarono di cogliere i problemi che questa circolarità produceva.Perciò, al fine di identificare in modo univoco le date, nella Mesoamerica meridionale venne precocemente elaborato - si pensa dagli Olmechi, con ulteriori perfezionamenti da parte dei Maya - un efficace sistema di notazione apparentemente di tipo lineare, detto oggi “lungo computo”, indipendente dai due cicli di 365 e 260 giorni, che permetteva di registrare in modo continuativo l’accumularsi dei giorni trascorsi da un punto di partenza convenzionalmente stabilito, in maniera analoga a quanto facevano i Romani partendo dalla fondazione dell’Urbe o di quanto si fa oggi rispetto alla nascita di Cristo.
Questo “punto zero” della registrazione del tempo corrispondeva al nostro 13 agosto 3113 a.C.; era perciò situato in un passato assai anteriore all’adozione del calendario ed era stato o determinato a posteriori, o indotto da civiltà precedenti, verosimilmente in base a considerazioni di tipo mitologico, cui non erano probabilmente estranee implicazioni di carattere astronomico (come può essere il fenomeno della precessione degli equinozi, o qualche sua conseguenza): come si ricorderà, il giorno iniziale del “lungo computo” corrisponde infatti a uno dei due passaggi annuali del sole per lo zenit alla latitudine di Izapa e di Copán. Pur essendo stato concepito diversi secoli prima del sorgere della civiltà maya e fuori dai suoi confini (con ogni probabilità nella regione dell’Istmo di Tehuantepec), questo sistema ebbe la sua massima auge presso i centri maya dell’epoca classica (III-X secc. d.C.), i cui monumenti sono costellati di iscrizioni con date del computo lungo, ma non si diffuse mai fino ai popoli dell’Altopiano centrale; al momento della Conquista spagnola esso era ancora in uso presso i soli Maya yucatechi, anche se il suo impiego nei monumenti era stato abbandonato da oltre sei secoli. Ciò nondimeno, come dimostra il suo sviluppo parallelo a quello della complessa scrittura ideografico-fonetica maya, esso costituisce una delle più raffinate realizzazioni intellettuali delle civiltà indoamericane, che ci consente di datare con estrema precisione ogni evento celebrato nelle iscrizioni giunte sino a noi.
Il calcolo del tempo trascorso dal punto iniziale avveniva su base vigesimale ed aveva come unità di misura il giorno: il cumulo complessivo dei giorni veniva registrato per mezzo di tre simboli, che contrassegnavano rispettivamente l’unità (un punto), il cinque (una linea) e il completamento della serie di venti (una conchiglia); quest’ultimo segno, che permetteva di modificare il valore degli altri due a seconda dell’ordine in cui erano disposti, è stato equiparato al nostro “zero” (pur non avendo il significato di “nulla”) e rendeva possibile l’impiego della notazione posizionale (dal basso in alto). In altre parole, un punto in prima posizione aveva valore uno, in seconda aveva valore venti, e così via per multipli di venti.
Una curiosa eccezione riguardava il valore dato alla terza posizione, che non equivaleva a venti volte la quantità precedente, cioè 20 x 20 = 400, ma aveva valore 360 (= 18 x 20); ciò era probabilmente dovuto al desiderio di armonizzare il più possibile il computo lungo con la durata dell’anno solare. Nelle iscrizioni maya vengono così annotati i singoli giorni (kin), le “ventine” (uinal), gli insiemi di 360 giorni (tun; da non confondere con lo haab, di 365) e i multipli vigesimali di questi ultimi, detti katun (360 x 20 = 7.200 gg.) e baktun (7.200 x 20 = 144.000 gg.). Particolare importanza era attribuita a quest’ultima quantità, al completamento della quale avevano luogo importanti celebrazioni rituali. Da ultimo, le iscrizioni registravano anche il nome del giorno in base al ciclo rituale di 260 giorni e all’anno solare, aggiungendovi spesso l’età della luna e il dio “signore della notte”.


1126458234maya_lungo_computo.png


Come si vede, si trattava di un sistema che, pur nell’ipotesi fosse che nato dall’esigenza di permettere una cronologia di maggior respiro rispetto al ciclo calendarico di 52 anni, non rinunciava ad incorporare anche quest’ultimo. Anzi, laddove la necessità di economizzare spazio sconsigliava l’indicazione dell’intera serie e il contesto permetteva di interpretare in maniera univoca una data, non di rado ci si limitava a segnalarla in forma abbreviata; è quanto ad esempio avviene nell’architrave n. 24 di Yaxchilán, che reca la semplice notazione 5 Eb 15 Mac, corrispondente al 28 ottobre del 709 d.C.
Tuttavia, malgrado la sua apparente natura lineare, anche il lungo computo non si sottraeva alla concezione del principio della circolarità del tempo nei maya: dalle epigrafi si ricava che dopo 13 baktun un’era cosmica era destinata a finire ed un’altra sarebbe cominciata; il completamento dell’era attuale, iniziata nel 3113 a.C., era previsto avvenisse quando si fosse raggiunta la data 13.0.0.0.0 4 Ahau 3 Kankin, corrispondente al 22 dicembre del 2012.
Per stabilire un legame tra le date Maya e il nostro calendario gregoriano dobbiamo rifarci agli studi dell'americano Goodman e di Sir Eric Thompson, grazie ai quali si è potuta stabilire una relazione tra i vari calendari: conoscendo una data Maya, per individuare il giorno corrispondente nel calendario gregoriano occorre ricavare un numero di conversione, da sommare al computo lungo, che ci permette di correlare il numero Maya al nostro calendario. Il numero accettato ufficialmente per tale conversione è quello suggerito da Sir Eric Thompson, il 584,283; non solo, in questo modo si è stabilito che la fine dell'ultimo ciclo grande e l'inizio di quello attuale corrispondevano al 13 agosto del 3113 a.C.
Visto che un ciclo grande durava tredici baktun, ossia 1.872.000 giorni (5200 “anni” di 360 giorni equivalenti a circa 5125 nostri anni di 365,242 giorni), la fine dell'era attuale cadrà il 22 dicembre del 2012. (3113+2012=5125 anni = 13 baktun). Questa chiusura escatologica del cerchio temporale al termine di 1.872.000 giorni non implicava però che i Maya non proiettassero assai oltre questa quantità (sia all’indietro, sia in avanti) la loro misurazione lineare del tempo; vi sono infatti iscrizioni di contenuto mitologico che registrano date lontane milioni di anni: la massima unità di misura conosciuta, il kinchiltun, ancorché di rarissimo impiego, comprende 1.152.000.000 giorni (20x400 baktun =8000 baktun).
La mitologia maya aiuta a spiegare le date descritte in precedenza: secondo i loro miti sulla Terra si sono succedute varie civiltà, per la precisione quattro, tutte finite con una grande catastrofe: i pochi sopravvissuti hanno permesso il proseguimento della civiltà, sebbene sotto forme diverse, nelle varie ere. I Maya spiegavano queste distruzioni dicendo che il Sole, al termine del suo ciclo millenario, aveva bisogno di un sacrificio per poter continuare a splendere e per questo anche gli dèi dovevano morire, perché il nuovo sole ne avrebbe generato altri.
Miti simili erano presenti anche presso gli Aztechi. Essi credevano infatti che tutte e quattro le ere (o “soli”) precedenti l’attuale fossero state distrutte in corrispondenza della fine di uno di questi cicli dai cataclismi prodotti dalle diverse divinità che vi avevano regnato: la prima èra, denominata “4 giaguaro”, simbolicamente legata alla terra e governata da Tezcatlipoca, era finita quando innumerevoli giaguari (animali in cui questo dio spesso si incarnava) avevano divorato gli uomini; la successiva era “4 vento” (dal simbolismo aereo), retta da Quetzalcoatl, era finita per lo scatenarsi di un vento impetuoso, che tutto aveva spazzato via; l’era “4 pioggia”, retta dal dio del fulmine Tlaloc (connotata perciò da valenze ignee), era finita sotto una pioggia di fuoco; l’era “4 acqua”, governata dalla dea delle acque Chalchiuhtlicue (e dunque chiaramente legata alla simbologia idrica), era terminata con un diluvio; l’attuale quinta era, detta “4 movimento” e nuovamente connotata in senso terrestre, ricadeva sotto l’influenza del dio eponimo degli Aztechi Huitzilopochtli e sarebbe finita con immani terremoti.
Il calendario Maya del lungo computo, alla luce di questa interpretazione mitologica, rappresenta quindi un lungo conto alla rovescia verso la fine della nostra era: abbiamo visto come secondo recenti calcoli l'inizio della nostra era viene posto al 13 Agosto del 3113 A.C. e quindi tutto dovrebbe terminare il 22 dicembre 2012. Ma questo lungo computo Maya, che ci comunica che sono già trascorse 4 ere della durata di 13 baktun l’una, quando ha avuto origine? Se volessimo fare un puro calcolo basandoci sui riscontri della mitologia maya, siamo alla fine della quinta era, quindi siamo sull’ordine dei 25600 anni. Ma che peso dobbiamo dare alla mitologia? A questo punto è doveroso rinviare il discorso alla lettura, ed alla totale comprensione ed assimilazione, dell’opera fondamentale del Prof. Giorgio De Santillana e di Hertha Von Dechend, “Il Mulino di Amleto”. Questo è uno di quei rari libri la cui lettura decreta in maniera inequivoca il cambiamento della prospettiva di ognuno di noi su tutto quello che riguarda il mito e il mondo arcaico, troppo frettolosamente ed ingenuamente liquidati come “primitivi”.
 

celeron

Main Trend Analysis
NASDAQ COMPOSITE 12 SETTEMBRE 2005

NASDAQ COMPOSITE 12 SETTEMBRE 2005

Nella prima seduta del secondo setup di settembre l'Indice Nasdaq Composite conferma il trend di breve e si porta al test del primo target ipotizzato, facendo registrare un massimo intraday a 2186,83 e recuperando l'importante dinamica rialzista 1x2 di Gann.
Il MT daily si aggiorna su questo valore, e si registra anche il secondo massimo consecutivo sul MT weekly, che è ancora orientato al ribasso.
I volumi di scambio continuano ad aumentare rispetto alla media di periodo.
I livelli di supporto restano invariati: 2164 e 2152 oltre ai livelli individuati dalle due medie di riferimento, 2149 e 2133.

1126600918nasdgann.jpg

1126600987nas.png
 

celeron

Main Trend Analysis
NASDAQ COMPOSITE 13 SETTEMBRE 2005

NASDAQ COMPOSITE 13 SETTEMBRE 2005

Nella seduta centrale del setup il Nasdaq Composite ritesta il livello 2185,9 senza riuscire a superarlo. Nessuna variazione di rilievo sul grafico del MT.
L'operatività torna ad essere dinamica, con preferenza long sopra 2187 e short, esclusivamente in ottica intraday, sotto 2164.
I volumi restano sui livelli raggiunti nelle ultime sedute.

1126688086nasdgann.jpg
 

Users who are viewing this thread

Alto