La cessione della rete a Kkr servirà per ridurre i debiti e dovrebbe rendere l’infrastruttura più competitiva. Ma la storia dell’ex Telecom riflette quella del Paese. Dove spesso gli interessi di parte prevalgono sulla crescita
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TIM, MANEGGIARE CON CAUTELA: DALLA SUA SORTE DIPENDE IL FUTURO DIGITALE DELL’ITALIA
di
Ferruccio de Bortoli
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Tim è l’autobiografia della nazione. Non c’è scampo. Una definizione che, vista l’evocazione storica, non dovrebbe dispiacere a Giorgia Meloni. Speriamo solo che i destini non siano paralleli perché l’ex monopolista delle telecomunicazioni,
anche dopo la contrastata separazione dalla rete, avrà vita difficile. Molto difficile. Non vi è vicenda economica e finanziaria che meglio concentri, in un miscuglio di valori opposti — tra genialità e visioni ma soprattutto bramosie di potere e denaro, anche personali — il carattere italiano.
Cattive abitudini e coraggio
Una collezione di cattive abitudini, ma anche nella sua lunga storia (dalla Stet, proprietà Iri, in poi) di coraggio, intuizioni, innovazioni. Di sicuro un’infinita cornucopia di commissioni di vario tipo. Una traduzione del tutto nostrana di cash cow con affollamento disordinato di mungitori. Peccato che Tim non sia un gruppo qualsiasi, che non si occupi — con tutto il rispetto — di abbigliamento o ristorazione, ma costituisca, almeno fino ad oggi, il sistema nervoso dell’economia italiana. Dalla sua sorte dipende il futuro digitale del Paese. I dati sono gli impulsi del sistema e se circolano male o non offrono connessioni adeguate, viene meno una sorta di immunità digitale. Gli utenti ne soffrono, la geografia economica si desertifica.
La spirale del debito
Chi ha ridotto il gruppo in queste condizioni ha la responsabilità di averlo trattato per troppi anni quasi esclusivamente come un cespite finanziario. Le ragioni industriali sono state spesso sacrificate alla logica perversa del debito. Più quest’ultimo cresceva (e ha superato anche i 30 miliardi) — o diventava, anche per l’aumento dei tassi d’interesse, di complessa gestione — più il gruppo si rimpiccioliva alla ricerca di un difficile equilibrio finanziario. Una spirale diabolica.
Il sì di Salvatore Rossi
Il presidente di Tim, Salvatore Rossi (chi mai gliel’ha fatto fare a un valente economista di prendersi una grana così?) ha scritto al Financial Times che la cessione della Netco al fondo americano Kkr, con una quota di minoranza diretta del ministero dell’Economia, non ha nulla di nebbioso, misterioso. Il fatto che la proposta non sia passata né dal comitato parti correlate né dall’assemblea straordinaria sarebbe, sulla base di alcuni autorevoli pareri legali, del tutto legittima e conforme al diritto societario.
Il no di Vivendi
Vivendi, che è il principale azionista con oltre il 23% (non un modello di governance e signorilità societaria) è di parere opposto
e si accinge a promuovere un’impugnativa presso il tribunale di Milano. L’incertezza legale si riflette sull’andamento del titolo che forse è stato depresso, in questi anni, più dalle liti societarie che da tutto il resto. La separazione dalla rete, per un corrispettivo che oscillerà alla fine intorno ai 20 miliardi, è stata resa necessaria — riassumiamo le ragioni del management — da due fattori. Il primo è ovviamente il debito che verrà ridotto, secondo i programmi del gruppo guidato da Pietro Labriola, dagli attuali 21 a 6 o 7 miliardi, cioè due volte l’Ebitda, in un margine di relativa sicurezza, tanto è vero che Standard&Poor’s valuta un rialzo del rating.
Gli occupati
La nuova società (Netco) della rete — che se l’Unione europea lo consentirà dovrebbe poi fondersi con Oper Fiber, partecipata dalla Cassa depositi e prestiti — assorbirà 20 mila addetti facendo scendere il totale della Serco, ovvero quello che rimane, a 16 mila. Comunque il doppio di Vodafone. Kkr gestirà la rete in autonomia per cinque anni, pur avendo l’azionista pubblico alcuni poteri di veto. Punterà a massimizzare il proprio investimento, applicando un sistema tariffario (Rab, Regulatory asset base) che renderà comunque più costoso l’uso dell’infrastruttura. La rete fissa tornerà, all’uscita del fondo americano, allo Stato, in una sorta di nemesi. A trent’anni dalla privatizzazione.
INFRASTRUTTURA
Gli enti regolatori
La seconda ragione riguarda i vincoli regolamentari dei quali si è parlato poco. L’incumbent delle telecomunicazioni, ormai di fatto non più tale, ritiene di essere stato fortemente penalizzato dai due regolatori (Antitrust e Agcom) proprio in virtù del fatto di essere integrato verticalmente. Una volta snellito, come semplice società di servizi, potrà essere nella visione degli attuali vertici, più competitivo a partire anche dalle offerte commerciali. E qui emerge il primo interrogativo storico della privatizzazione di Telecom e della liberalizzazione del settore che comunque consente agli utenti italiani di pagare tariffe più basse rispetto a quelle in vigore in altri Paesi.
Troppa concorrenza?
Di concorrenza ce n’è stata forse troppa (e disordinata) con una compressione dei margini che altrove non è avvenuta, penalizzando gli investimenti e, di conseguenza, la qualità futura dei servizi offerti alla clientela. Per esempio, l’Arpu (Average revenue per user) di Tim, cioè quanto rende un singolo cliente, è diminuito del 40 per cento in sei anni. Ormai è appena due euro più alto della controllata brasiliana, cresciuto del 32% nello stesso periodo, che per fortuna sostiene ancora l’intero gruppo, e un settimo dell’ex incumbent americano, ovvero AT&T. Gli Stati Uniti hanno tre grandi operatori; i Paesi europei superano i cento e l’Italia è quella che ne ha di più, cinque.
I giganti del web
L’Europa, che pure ha inventato e lanciato il sistema Gsm, non ha saputo proteggere la propria industria delle telecomunicazioni esponendola all’invasione dei giganti del web, peraltro in gran parte statunitensi. «La lezione, purtroppo amara, che possiamo apprendere dall’intera travagliata storia delle telecomunicazioni italiane — commenta Francesco Sacco, docente di Digital economy all’Università dell’Insubria e alla Sda Bocconi, consulente in materia dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni — è che con una infrastruttura critica non si fa finanza. All’epoca delle privatizzazioni, agli inizi degli anni Novanta, la si ritenne meno importante di quella elettrica, attualmente gestita da Terna, non a caso pubblica. Non c’era una norma simile a quello che oggi è il golden power. Si vendette solo per far cassa».
La privatizzazione
Come ricordano nel loro libro Illusioni perdute (Il Mulino), Pietro Modiano e Marco Onado, nel 1998, al momento della privatizzazione, Telecom era quarta in Italia per fatturato e prima per valore aggiunto. Non aveva debiti. E nonostante questo per costituire il primo «nocciolino» di azionisti stabili, Prodi e Ciampi dovettero faticare, quasi pregare i soci privati. Il gruppo Agnelli partecipò per un micragnoso 0,6%. L’Opa (Offerta pubblica d’acquisto) dei cosiddetti capitani coraggiosi, con in testa Roberto Colaninno, con la neutralità del governo D’Alema, nel 1999, caricò poi la società di un debito gigantesco. I mercati festeggiarono (e la stampa economica fu troppo indulgente). Si festeggiò persino nelle austere stanze di Mediobanca. Secondo la ricostruzione di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons (L’affare Telecom, Sperling&Kupfer) l’offerta portò a un guadagno del 100% per chi aveva comprato azioni Telecom alla privatizzazione. Ma i debiti erano ormai il doppio del patrimonio. E la fusione con l’allora Tim, la società del mobile, nella sfortunata stagione di Pirelli e Benetton, a guida Tronchetti Provera, complicò ulteriormente la situazione debitoria. E poi è stata la volta di Telco (con Mediobanca, Generali, Sintonia e Telefonica) e di Vivendi.
IL GRUPPO FRANCESE
La spoliazione
Una tragedia nazionale, ma anche una sistematica spoliazione del gruppo costretto a vendere partecipazioni anche strategiche (per esempio Loquendo, all’avanguardia nell’intelligenza artificiale ceduta nel 2011 all’americana Nuance) pur di reggere la pressione di azionisti affamati di dividendi e con una patologica e costosa girandola di manager. Angelo Cardani, docente alla Bocconi, è stato presidente dell’Agcom dal 2012 al 2020. «Il disegno di questa operazione — è il suo commento — sembra una diretta applicazione da un manuale di Economia: tutti gli operatori utilizzano la rete alle stesse condizioni, con l’imparzialità garantita dalla partecipazione pubblica. Qui cominciano i problemi: purtroppo in passato abbiamo visto che più di una volta lo Stato si è mosso non come arbitro ma come alleato di uno o più giocatori. Inoltre, bisognerà vedere se alla Serco, basterà una robusta riduzione di un’occupazione, oggi elefantiaca, e lo sperato taglio al debito per galleggiare e poi prosperare. Il management ha fatto ciò che ha potuto, non sempre purtroppo nell’interesse esclusivo della società». Senza la rete ci può essere un futuro stand alone, solitario? «Me lo auguro — risponde Cardani — ma non ne sono del tutto sicuro. La verità è che la società ha spesso usato la rete in maniera spregiudicata. Adesso chi gestirà l’infrastruttura lo farà certamente in un’ottica finanziaria, Kkr è un fondo, lo fa per mestiere. Ma Tim ha bisogno da tempo di una visione industriale. Siamo nell’epoca dei dati, una risorsa strategica. I dati si muovono nella rete. E se questa non funziona al meglio, non passa dal rame alla fibra, perde generazioni di investimenti, il prezzo sarà pagato dall’intero Paese».