PREFERIREI MORIRE DI PASSIONE CHE DI NOIA.

Giorni fa l’Ufficio statistico dell’Unione europea (Eurostat);
cioè la direzione generale della Commissione europea che raccoglie ed elabora le informazioni provenienti dagli Stati membri dell’Unione ai fini statistici,
ha pubblicato i seguenti dati relativi alle Regioni più a rischio di povertà o esclusione sociale; in particolare ha prodotto la seguente graduatoria:


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E mi sono subito chiesto se questi dati, se questa tabella era stata sottoposta alla attenzione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio;

sì, al ministro che nell’ultimo biennio,
nei vari ruoli rivestiti oltre che da vicepresidente del Consiglio,
da ministro dello Sviluppo economico,
da ministro del Lavoro,
e ultimamente da ministro degli Esteri e del Commercio con l’Estero,

ha più volte ricordato che la grande intuizione strategica del Movimento 5 Stelle,
avviata proprio con la Legge n. 4 del 28 gennaio 2019 istitutiva del “Reddito di cittadinanza”, avrebbe annullato nel nostro Paese “la povertà”.



Sono sicuro che qualora leggesse questi dati e, cosa più difficile,
qualora leggesse le considerazioni che farò dopo, dichiarerebbe: “È troppo presto per leggere dei risultati positivi”.


Prima o poi il ministro Di Maio ed il Movimento 5 Stelle dovranno ammettere che questa norma non solo non ha prodotto nulla,

non solo non ha minimamente inciso su ciò che definiamo “povertà”, ma la cosa più grave

ha ritardato il processo di ritorno alla normalità socio-economica di fasce sociali caratterizzate da forme di irreversibile impoverimento come quelle del Mezzogiorno
;


a tal proposito fa paura che le tre Regioni del Mezzogiorno hanno una percentuale di rischio di povertà superiore al 40 per cento,
ricordo che nelle Regioni del Nord non si supera mai il 15 per cento.

Né accetto la sistematica precisazione, sempre di esponenti del Movimento 5 Stelle,
che il provvedimento è stato essenziale in questa fase della pandemia e ha reso possibile la sopravvivenza di vaste realtà socio-economiche del Paese.


Questo approccio, lo voglio ammettere, annullando la mia carica eccessivamente critica nei confronti del Movimento, testimonia in modo particolare la ingenuità del Movimento 5 Stelle;
sì, il Movimento ha impugnato la bandiera del superamento della grave tragedia della povertà ricorrendo allo strumento della “elemosina”,
di uno strumento che nella realtà ha una caratteristica:

Mantiene inalterata la povertà e, addirittura, la trasforma da fenomeno congiunturale in fenomeno strutturale”.

In realtà la ingenuità ha prodotto una serie davvero inimmaginabile di fallimenti decisionali.


Non voglio in proposito infierire elencando, come più volte ricordato, la serie di decisioni prese e dopo pochi mesi annullate e ribaltate.

In fondo, perché prendersela con uno schieramento che decide e sceglie non a valle di un dibattito interno,
non a valle di un confronto parlamentare ma solo dopo aver acquisito la decisione della “piattaforma Rousseau”.


Senza dubbio tutte queste sono giustificazioni che non sono più accettabili quando sono foriere e artefici della povertà del Paese,
quando denunciano l’innamoramento del Movimento per ciò che mi fa paura solo nominare e cioè “la decrescita felice”.


Voglio invocare un esempio che ripeto spesso:

7,5 miliardi di euro all’anno è il costo medio del “reddito di cittadinanza”,

se tale volume di risorse venisse investito nel comparto delle costruzioni per realizzare infrastrutture essenziali

produrrebbe una crescita del Pil di circa 0,5% ed un contestuale aumento occupazionale
;

lo stesso volume di risorse assegnato come rata assistenziale non produce nulla, neppure il ritorno in termini di consumi.


Le crisi sociali non si superano, ripeto, erogando sussidi ma investendo in attività che generano davvero lavoro.



Sempre ingenuità e in questo caso anche grave incapacità quella di aver fatto ricorso ai cosiddetti “navigator”,
cioè essersi illusi che era possibile indirizzare qualcuno al lavoro quando paradossalmente non esistevano le condizioni di lavoro.

Il quadro prodotto da Eurostat e da me riportato all’inizio spero convinca il Movimento a compiere un atto di sana umiltà;
sì, lo stesso atto fatto nei confronti del nuovo tunnel ferroviario Torino-Lione, nei confronti del centro siderurgico ex Ilva di Taranto,
nei confronti della Trans Adriatic Pipeline (Tap), nei confronti del ponte sullo Stretto e annullino il provvedimento che mantiene in vita il “reddito di cittadinanza”;
allora forse capiremmo se davvero nel Movimento c’è davvero buona fede.
 
Niente di meglio che mantenere un fantoccio. E' quello che sperano i poteri finanziari.


Lo spread Btp-Bund ha beneficiato, almeno in parte, dell’esito delle ultime elezioni amministrative svoltesi in Italia.

Sembrava che la maggioranza fosse sul punto di sgretolarsi e che la spallata del centrodestra fosse lì a un passo.

Così non è stato.

O almeno, non si sono verificate le condizioni sperate dall’opposizione.

Alla fine il “pareggio” con il risultato di 3-3 ha avuto due effetti:
ritoccare le crepe presenti sulla facciata del governo giallorosso e riportare la serenità sui mercati.

Tornando al differenziale Btp-Bund, la forbice è tornata sotto il tetto dei 140 punti, con picchi pari a 136.

Si tratta, questo, di un punto di arrivo che non si vedeva da mesi.

Precisamente dalla metà di febbraio, prima dello scoppio della pandemia di Covid-19.

Volendo fare un paragone, questo valore equivale a meno della metà di quello raggiunto nel periodo più nero dell'emergenza sanitaria.

A questo punto è interessante chiedersi il perché di un simile cambiamento di registro e fare qualche previsione in vista del futuro.


Secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore, gli investitori esteri hanno controbilanciato le ingenti vendite relative ai mesi di marzo aprile soltanto in parte.

Come se non bastasse, sul lungo periodo pesano due incognite: quella sulla crescita e quella sulla tenuta dei conti.

Certo è che il rendimento del Btp a 10 anni si è ridotto di più di 10 punti, toccando un minimo di seduta pari allo 0,87%.

Per quale motivo?

Abbiamo parlato delle elezioni regionali.

Ebbene, il rischio di una ridotta instabilità politica dopo le votazioni ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai mercati.

La combinazione del “sì” al referendum costituzionale e il pareggio alle regionali, ha sottolineato Barclays in una nota,
ha ridimensionato “le ambizioni della destra” e rafforzato “la coalizione di governo spostando l’asse in favore del Pd”.

Detto altrimenti, gli investitori considerano come fattori chiave la stabilità politica – che, a quanto pare, sembrerebbe assicurata –
e l’eventualità di elezioni anticipate – ipotesi al momento così remota da non esistere.

Anche perché la riduzione del numero di parlamentari comporta tempi tecnici piuttosto corposi,
sia per ridisegnare collegi che per fare una nuova legge elettorale.

Insomma, è pressoché impossibile assistere al voto entro gennaio.

Per quanto riguarda il 2021, i primi sette mesi potrebbero, almeno in linea teorica, regalare sorprese.

Poi, una volta superato questo ostacolo, scatterà il cosiddetto semestre bianco.

Unicredit concorda sostanzialmente con gli analisti di Barclays:
il rischio politico è stato “significativamente ridotto” dall’esito elettorale.

Un governo considerato stabile dai mercati avrà il compito di gestire i prossimi appuntamenti chiave presenti sull’agenda italiana,
tra cui la legge di bilancio e l’utilizzo del Recovery Fund.

Questo vale per il breve termine.

Ma che cosa succederà nel lungo periodo?

Il mercato non ha alcuna intenzione di esporsi sul rischio Italia.

All’orizzonte si stagliano un paio di ombre.

Troviamo l’aumento del debito pubblico, necessario per fronteggiare gli effetti nefasti della pandemia,
e l’ipotetico declassamento del rating, non ancora scongiurato.

Accanto alla questione politica, dunque, si fa strada il tema economico.

Gli interrogativi rispondono al nome di sostenibilità fiscale,
efficacia delle misure intraprese dal governo
e tempistica degli investimenti derivanti dai fondi europei.
 
ahahahahah da che parte viene l'odio ? ........

A giudicare dai manifesti funebri con il nome del candidato del centrodestra a Faenza Paolo Cavina
affissi in giro per la città all’indomani delle elezioni comunali,
si direbbe che a diffondere l’odio politico invece della tanto vituperata e accusata destra, sia invece la sinistra.

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“È la dimostrazione plastica che chi ci accusa di essere fascisti o di diffondere odio, in realtà è il primo a diffondere odio abbassando il livello fino a questo punto”.

“Il livello di intolleranza dello spirito antidemocratico della sinistra che vorrebbe scaricare sul centrodestra i propri vizi e difetti, penso che sia cosa nota e smascherata dall’opinione pubblica”.

“La vicenda dei necrologi di Paolo Cavina va oltre la vergogna e testimonia l’approccio della sinistra alla politica.
Per noi esistono avversari e non nemici. Noi facciamo un in bocca al lupo al nuovo sindaco di Faenza
sperando prenda le distanze da questo gesto che non ha un un carattere né scherzoso né goliardico
e utilizza toni che non possono appartenere alla competizione politica”.

“Non si smentiscono mai, dopo una campagna elettorale tirata, il senso di responsabilità dovrebbe portare a momenti di serenità
nell’interesse di tutta la comunità faentina, continuare a incitare all’’odio e allo scontro conferma che è un classico del Dna della sinistra”

Il neo sindaco di Faenza, oggi a capo di una coalizione di centrosinistra e M5S, Massimo Isola, commenta:
“Durante questa campagna elettorale ho sempre prestato attenzione ai toni utilizzati e ho pesato ogni parola scritta o pronunciata,
soprattutto se rivolta ai miei avversari. Per questo ci tengo fermamente a prendere le distanze da questo messaggio,
scritto sotto forma di annuncio funebre, indirizzato al mio avversario Paolo Cavina e alla sua squadra.
È un gesto che condanno, perché offensivo e di pessimo gusto. È una vergogna”.

Marco di Maio di Italia Viva :
“In queste ore su uno dei manifesti di Paolo Cavina, il candidato sindaco a Faenza della Lega e di tutto il centrodestra,
è stato affisso questo annuncio funebre. Che forse nelle intenzioni doveva avere un tono ironico, ma che nella realtà trovo di uno squallore unico”.



“Satira? No, odio e intolleranza. Da gesti come questi si misura il basso livello in cui è scaduta l’area del centrosinistra uscita vincitrice dalle urne alle ultime elezioni.
Se questo è il buongiorno che riservano alla città gli amministratori che guideranno Faenza nei prossimi anni, c’è davvero di che preoccuparsi.
A dover essere condannato senza appello non è infatti il gesto in sé, pur grave e disonorevole, di aver elaborato e affisso un manifesto da morto
con i nomi del candidato sindaco della parte avversa, uscito sconfitto, e di esponenti delle forze che lo appoggiavano, beffeggiandoli e denigrandoli.
A dover allarmare è l’ambiente culturale e politico della sinistra che lo ha prodotto e legittimato. Un ambiente che evidentemente è scaduto anche dal punto di vista etico”.


“Oggi i faentini hanno la prova provata di chi alimenta il clima di violenza che mette a rischio libertà e democrazia.
Da condannare è la volontà di infierire sull’avversario sconfitto, con attacchi personali beceri, anziché concedergli l’onore delle armi,
un gesto di alto contenuto morale e istituzionale che ereditiamo da una tradizione millenaria.
Ed è altrettanto evidente che, nonostante la vittoria, questa sinistra teme per il proprio futuro e sta diventando sempre più aggressiva.
Ma siano certi i faentini che noi, dall’alto dei nostri principi e ideali, non ci lasceremo trascinare in questa controversia al massacro”
 
Ci viene in mente quello straordinario testo di economia e di storia che scrisse John Maynard Keynes
dopo la pace e gli accordi di Versailles del 1919, perché mentre tutti festeggiavano il sì e la firma del trattato,
John Maynard Keynes ammoniva il mondo su ciò che invece ne sarebbe scaturito, così è nato “Le conseguenze economiche della pace”.

In poche parole il grande economista voleva dire, c’è poco da festeggiare il sì di questo accordo,
perché la sua sostanza pone le basi di troppi errori che finiranno col pesare tragicamente sul futuro.



Quando si festeggia ciò che all’apparenza sembra un successo ma nella realtà può diventare un rischio grave e pernicioso anziché utile e glorioso.

Ovviamente ci riferiamo a quel 70 per cento di italiani che ha votato il sì al referendum, non volendo o facendo finta di non capire,
che il problema non fosse quello di risparmiare, perché in realtà non si risparmia niente, ma di creare la condizione per peggiorare la democrazia della nazione.

Parliamoci chiaro, i problemi immensi del Paese non sono 200 parlamentari in più o in meno,
ma un sistema e un apparato che andrebbe cambiato e riformato per intero, in modo sostanziale e generale.

Abbassare infatti il numero dei parlamentari per dare in pasto al popolino 200 scranni e 200 stipendi,

quando nel sistema pubblico di stipendi regalati ce ne sono a decine di migliaia a dire poco,

significa solo prendere in giro i cittadini, tendergli un tranello cercando di trasformare il brutto in bello.



Da oggi infatti, a referendum approvato, non solo non è cambiato nulla della procedura parlamentare e del sistema perfetto bicamerale,
ma si è creato un vulnus di rappresentanza, una carenza grave, che si dovrà compensare con una serie di riforme da studiare, la frusta prima del cavallo.

Ciò che invece malauguratamente è cambiata per davvero grazie alla vittoria del sì, è la forza del Governo,
la sua stabilità e la certezza di restare in sella, a proposito di cavallo, fino alla fine della legislatura, una iattura che costerà lacrime e dolori.

Del resto sarà mica un caso che tutta la maggioranza faccia festa, brindi alla vittoria,
che Giuseppe Conte sia ringalluzzito, i grillini festeggino il risultato e Nicola Zingaretti sia diventato all’improvviso un grande stratega del successo giallorosso.


Perché quello che conta è che la maggioranza sia scampata al pericolo della sconfitta, della vittoria del no che avrebbe significato una disfatta.


Perché sia chiaro, se il referendum fosse stato respinto, da Giuseppe Conte a Luigi Di Maio a Nicola Zingaretti assieme ai loro cespuglietti,
avrebbero preso una legnata in bocca, per dirla con Dante, da lasciar la lingua stucca.

Ma visto che il pericolo è scampato grazie agli errori demenziali del centrodestra,
che ha contribuito in modo fondamentale al successo e al posto degli onori riceverà indietro solo dolori,
come tutti gli italiani del resto, perché da adesso fino al 2023 i giallorossi ne faranno di tutti i colori.


Le conseguenze del sì, cari amici ecco il motivo per cui l’abbiamo scritto, saranno :

l’abolizione del decreto sui porti che consentirà l’assedio legale dei clandestini,

l’approvazione dello Ius soli che porterà una valanga di voti alla sinistra trasformando l’Italia in una babele,

l’accettazione del Mes che ci consegnerà mani e piedi alla Ue e forse alla Troika e alla patrimoniale.

una legge elettorale fatta con comodo per arrivare al 2023 e favorire la fusione e l’alleanza giallorossa,

la nomina di un nuovo capo dello Stato gradito ai giallorossi,

il via libera ad una giustizia che nonostante la gravità pazzesca del “caso Palamara” tira dritta come se niente fosse.


Ma se questo non bastasse, il sì al referendum consegnerà ai giallorossi i soldi del Recovery fund
per consentirgli di fare clientelismo elettorale attraverso l’ampliamento dell’apparato statale,
di consolidare la via della Seta per diventare della Cina il più bel pianeta.


Avete capito bene a cosa è servito veramente quel sì dissennato che si è votato?

Altro che risparmio, velocizzazione, semplificazione delle procedure, colpo alla casta;
ma quale colpo, un fico secco, col sì la casta cattocomunista, quella erede di Togliatti assieme alla grillina,
ha fatto tombola e bingo in una botta e si è blindata in un vagone di piombo, come Lenin sic.


Il Trio Lescano di comando ha dimostrato, a partire da Salvini, che gli attributi sono sconosciuti.


Ecco le conseguenze del sì amici e lettori, signore e signori, altro che colpo allo spreco e alla casta;
è stato il più grande trappolone per prendere in mano la nazione e fare il bello e il cattivo tempo,
ma ciò che veramente manda ai matti è che tutto ciò succede col centrodestra che governa 15 Regioni su 20.
 
Una corpulenta donna con la gonna alzata si piega ed espleta le proprie funzioni intestinali contro un muro, per strada, in pieno giorno.

Poi, come se niente fosse, si risistema le sottane e se ne va. Con noncuranza.

Il livello di degrado e di bestialità è alle stelle.

E’ quanto si può vedere nel video postato ieri su Twitter da Radio Savana, il sito che denuncia gli episodi di criminalità legati al fenomeno dell’immigrazione incontrollata.

Il nome della città rimane sconosciuto, ma non importa: succede ogni giorno in qualsiasi città della Penisola, fa parte della triste realtà che pesa ormai ovunque.

E non è nemmeno l’aspetto più preoccupantei.

Degrado, roghi tossici, furti, spaccio, sfruttamento minorile, il tutto operato nella pressoché totale impunità:
la scena della matrona che defeca per strada, insomma, fa da cornice a tutto il resto.

Arricchimento culturale in Italia: donna defeca per strada. #risorseINPS #RadioSavana pic.twitter.com/QXAlasn7eV
 
Ci viene in mente quello straordinario testo di economia e di storia che scrisse John Maynard Keynes
dopo la pace e gli accordi di Versailles del 1919, perché mentre tutti festeggiavano il sì e la firma del trattato,
John Maynard Keynes ammoniva il mondo su ciò che invece ne sarebbe scaturito, così è nato “Le conseguenze economiche della pace”.

In poche parole il grande economista voleva dire, c’è poco da festeggiare il sì di questo accordo,
perché la sua sostanza pone le basi di troppi errori che finiranno col pesare tragicamente sul futuro.



Quando si festeggia ciò che all’apparenza sembra un successo ma nella realtà può diventare un rischio grave e pernicioso anziché utile e glorioso.

Ovviamente ci riferiamo a quel 70 per cento di italiani che ha votato il sì al referendum, non volendo o facendo finta di non capire,
che il problema non fosse quello di risparmiare, perché in realtà non si risparmia niente, ma di creare la condizione per peggiorare la democrazia della nazione.

Parliamoci chiaro, i problemi immensi del Paese non sono 200 parlamentari in più o in meno,
ma un sistema e un apparato che andrebbe cambiato e riformato per intero, in modo sostanziale e generale.

Abbassare infatti il numero dei parlamentari per dare in pasto al popolino 200 scranni e 200 stipendi,

quando nel sistema pubblico di stipendi regalati ce ne sono a decine di migliaia a dire poco,

significa solo prendere in giro i cittadini, tendergli un tranello cercando di trasformare il brutto in bello.



Da oggi infatti, a referendum approvato, non solo non è cambiato nulla della procedura parlamentare e del sistema perfetto bicamerale,
ma si è creato un vulnus di rappresentanza, una carenza grave, che si dovrà compensare con una serie di riforme da studiare, la frusta prima del cavallo.

Ciò che invece malauguratamente è cambiata per davvero grazie alla vittoria del sì, è la forza del Governo,
la sua stabilità e la certezza di restare in sella, a proposito di cavallo, fino alla fine della legislatura, una iattura che costerà lacrime e dolori.

Del resto sarà mica un caso che tutta la maggioranza faccia festa, brindi alla vittoria,
che Giuseppe Conte sia ringalluzzito, i grillini festeggino il risultato e Nicola Zingaretti sia diventato all’improvviso un grande stratega del successo giallorosso.


Perché quello che conta è che la maggioranza sia scampata al pericolo della sconfitta, della vittoria del no che avrebbe significato una disfatta.


Perché sia chiaro, se il referendum fosse stato respinto, da Giuseppe Conte a Luigi Di Maio a Nicola Zingaretti assieme ai loro cespuglietti,
avrebbero preso una legnata in bocca, per dirla con Dante, da lasciar la lingua stucca.

Ma visto che il pericolo è scampato grazie agli errori demenziali del centrodestra,
che ha contribuito in modo fondamentale al successo e al posto degli onori riceverà indietro solo dolori,
come tutti gli italiani del resto, perché da adesso fino al 2023 i giallorossi ne faranno di tutti i colori.


Le conseguenze del sì, cari amici ecco il motivo per cui l’abbiamo scritto, saranno :

l’abolizione del decreto sui porti che consentirà l’assedio legale dei clandestini,

l’approvazione dello Ius soli che porterà una valanga di voti alla sinistra trasformando l’Italia in una babele,

l’accettazione del Mes che ci consegnerà mani e piedi alla Ue e forse alla Troika e alla patrimoniale.

una legge elettorale fatta con comodo per arrivare al 2023 e favorire la fusione e l’alleanza giallorossa,

la nomina di un nuovo capo dello Stato gradito ai giallorossi,

il via libera ad una giustizia che nonostante la gravità pazzesca del “caso Palamara” tira dritta come se niente fosse.


Ma se questo non bastasse, il sì al referendum consegnerà ai giallorossi i soldi del Recovery fund
per consentirgli di fare clientelismo elettorale attraverso l’ampliamento dell’apparato statale,
di consolidare la via della Seta per diventare della Cina il più bel pianeta.


Avete capito bene a cosa è servito veramente quel sì dissennato che si è votato?

Altro che risparmio, velocizzazione, semplificazione delle procedure, colpo alla casta;
ma quale colpo, un fico secco, col sì la casta cattocomunista, quella erede di Togliatti assieme alla grillina,
ha fatto tombola e bingo in una botta e si è blindata in un vagone di piombo, come Lenin sic.


Il Trio Lescano di comando ha dimostrato, a partire da Salvini, che gli attributi sono sconosciuti.


Ecco le conseguenze del sì amici e lettori, signore e signori, altro che colpo allo spreco e alla casta;
è stato il più grande trappolone per prendere in mano la nazione e fare il bello e il cattivo tempo,
ma ciò che veramente manda ai matti è che tutto ciò succede col centrodestra che governa 15 Regioni su 20.

Capisco cheche dalla CATTEDRA dura ingoiare sconfitta SI ..... ma ti ricordoo che ANCORA sono 1200 e i temi che citi....salvini aa processo.....frutto azioni loro...ergoa TAGLIO SACROSANTO

P.s. inutile citare fallimenti di maio....conazioni REVOCA DUE MANDATO M5S E' MORTO.....dalle ceneri nasce un partito.
 
Intendiamoci, dopo ogni campagna elettorale, già coi primi exit poll, si leva chiaro e forte l’univoco commento: abbiamo vinto noi.

È l’antico vizio della nostrana politica nella quale non succede mai che l’autocritica, nel caso di una sconfitta,
venga offerta in anticipo o alla conclusione con l’umiltà che la nobilita.

È un vizio e un limite forieri di nove disillusioni.

E questa prova duplice di referendum e di voto amministrativo non soltanto necessiterebbe di autocritica (e umiltà)
da parte di tutti ma proprio tutti i protagonisti, sia pure con diverse graduazioni, ma di una considerazione prioritaria
di stampo squisitamente politico giacché dalle urne, nel mescolamento del doppio confronto, è uscita una indicazione chiara :

CINQUESTELLE A MENO DEL 10%

Questa sembra a noi il primo e più consistente messaggio proveniente dal popolo italiano che, smentendo tanti sondaggi,
si è recato alle urne in quantità imprevista e al di là del virus ritenuto frenante e che al contrario, il 20 e 21 settembre,
al posto del freno ha dato una spinta come a indicare, da parte dei votanti, che proprio la facilità del referendum
e la scontata vittoria del sì comportava una partecipazione che implicitamente suonava non come un’obbedienza astratta
ma come un invito a chi di dovere di trarre conferme e indicazioni sia sulla salute democratica di un paese sia sulla necessità
di una presenza viva e attiva sulle scelte di fondo.

Il che costringe i vincitori, a cominciare da chi li governa, a prendere quelle decisioni urgenti
che fino ad ora sono state colpevolmente rinviate sotto un diluvio di parole e di promesse
delle quali uno come Giuseppe Conte è il riconosciuto e immarcescibile maestro.

Ma fino a quando?


In realtà, e come si prevedeva, il referendum era doppio giacché al suoi fianco se ne era posto uno più ridotto
in quella rossa Toscana dove la posta in gioco cioè il cambiamento dopo più di mezzo secolo,
è stata la sfida di un Matteo Salvini in nome della quale ha polarizzato una campagna elettorale per dir così vivace com’è nel suo stile.


Ma, se andiamo un po’ più in profondità nell’analisi della questione salviniana.
Al di là del madornale e autolesionistico sì leghista (e pure della Meloni che però ha vinto nelle rosse Marche)
regalando a un M5s in caduta libera un successo immeritatissimo-ciò che ne contraddistingue l’esito alle Regionali
è la crisi di una politica che cinque anni fa, nei tripudi romani, aveva imposto un radicale cambiamento interno.

Chi ha vinto e chi ha perso, dunque?

Ha un bel sentenziare Luigi Di Maio sulla vittoria, addirittura storica, del taglio dei parlamentari

“contro gli sprechi e i costi della politica dei dinosauri” parole pronunciate dopo essere sceso dall’auto blu

e scrittogli da uno dei suoi dieci o venti collaboratori alla Farnesina,

non soltanto dimenticando le assicurazioni di qualche mese fa quando chiedeva ai suoi seguaci

che gli togliessero il saluto se lo vedessero seduto sull’auto, sempre blu, dei politici infami e corrotti,

ma ignorando il clamoroso flop alle Regionali dove il suo partito si aggira sul dieci per cento.


Il partito di Nicola Zingaretti, anche senza il M5s, ha avuto ben altri risultati
che rafforzano il traballante segretario del Pd consentendo a Conte una navigazione meno insicura
che, tuttavia, continuerà a privilegiare annunci di grandi riforme e di impegni sacrosanti che il trio Conte, Zingaretti, Di Maio
hanno sparso a piene mani senza, fino ad ora, nessuna risposta fattiva, solo assistenzialismo..


Dire qualcosa su Forza Italia sembra quasi sparare sulla Croce rossa.
Il fatto è che la crisi di Forza Italia è davanti a tutti, e Silvio Berlusconi ha non poche responsabilità
se il Centro destra vede scomparire la prima parola della sigla.

L’idea del partito personale, senza organi collegiali, senza direttivi, esecutivi, segreterie, senza coinvolgimenti,
si è risolta in una illusione, produttrice di allontanamenti, di abbandoni e di scissioni.

E la stessa, bella vittoria del governatore della Liguria Giovanni Toti,
annientando il concorrente voluto da Marco Travaglio e accettato da Zingaretti,
non è, ad essere puntigliosi di un uomo di Forza Italia ma di uno che ne era venuto via.

E abbiamo detto tutto.

Per ora.
 
Tira una brutta aria.
Con i risultati delle regionali, Forza Italia si trova a fare i conti con perturbazioni interne.
Tensione tra i parlamentari e i dirigenti, il partito viaggia su percentuali che spaventano
e la paura che si aggiunge con la vittoria del Sì del referendum,
contribuisce a far montare l’insofferenza verso i “fedelissimi” di Silvio Berlusconi.


Al silenzio di Berlusconi, il quale si limita “a telefonare ai dirigenti del partito per provare a rassicurarli”, si contrappongono i toni alti di alcuni.

Ad alzare la voce, inizialmente solo Osvaldo Napoli, vicino a Mara Carfagna.

Ma ieri (22 settembre) anche “Paolo Russo, si è fatto sentire per criticare la scelta di Caldoro come candidato presidente”, si legge su La Stampa.

“Hanno usato logiche tribali”, accusa Russo.

A loro si è aggiunta Micaela Biancofiore, la quale dichiara:
«Forza Italia è andata contro la volontà degli elettori. Come ho già detto al presidente Berlusconi, squadra perdente si cambia!».

I toni sono più pacati, ma il contenuto mette sempre in evidenza come le cose non stiano andando bene.

Mentre Anna Maria Bernini parla di «risultato in chiaroscuro»,
Mariastella Gelmini chiede di «avviare una riflessione» su
«risultati che non soddisfano pienamente, valorizzando la vocazione liberale, riformista ed europeista del nostro movimento».
Per Deborah Bergamini, invece, è chiaro che il centrodestra non possa sfondare:
“Siamo noi che manchiamo, i moderati. Serve una forza moderata, liberale e popolare”.


La Ronzulli – racconta la Stampa- replica tra le righe, ringraziando chi ha lavorato duramente durante la campagna elettorale
e sottolineando che mentre per alcuni l’impegno è stato evidente, per altri non è stato così ed è proprio tra questi che c’è chi si lamenta.


Al di là degli scambi di accuse, per Berlusconi questo non è il momento di fare la resa dei conti interna.

Il leader ha solo commentato: “percentuali sotto le due cifre non sono all’altezza della nostra storia”.
 
Non usa giri di parole Barbara Lezzi per commentare il risultato delle Regionali:

“Un disastro” per un Movimento Cinque Stelle che ora “non rischia la scissione, rischia di scomparire”.

A rendere ancora più amaro l’esito delle elezioni, la contemporanea vittoria di quel referendum per il taglio dei parlamentari
che i proprio i grillini avevano eletto a loro totem: “Il 70% di quelli che ha votato Sì non ha votato per noi”.

L’ex ministro per il Sud, attraverso le pagine del Corriere della Sera, ha ammesso la sconfitta, netta.

Per poi provare a dettare una linea utile a salvare quel che resta del futuro pentastellato.


“Credo che l’errore sia stato non organizzare le Regionali per tempo. C’era un anno intero.
C’è stata l’emergenza Covid, ma questo non giustifica il ritardo.
Non credo che Crimi abbia colpi, lui ha fatto un buon lavoro in un momento concitato.
Di Maio, inoltre, lo critica ma non dice come le avrebbe organizzate lui”.


Il problema, secondo Lezzi, non sono nemmeno le alleanze:

“Basta guardare la Liguria e alcuni Comuni, la sconfitta riguarda solo il M5S.
Da noi gli elettori si aspettano determinazione, i candidati hanno scontato indecisioni che disorientano la base”.


Un’alleanza progressista?

Secondo la senatrice non è la strada per rialzare rapidamente la testa:


“E per fare cosa? Sostenere De Luca in Campania? Serve un progetto, una identità.
Prima delle alleanze bisogna pensare al cosa, poi al come, quindi al chi”.

Gli Stati Generali, in questo senso,
“vanno fatti immediatamente, ponendo all’ordine del giorno nuovi temi e nuovi obiettivi.
Poi bisogna pensare a una nuova governance”.


Secondo Lezzi,

“si parla di una struttura di 5-7 persone ma io credo che serva qualcosa di più ampio,
una struttura che sia radicata nei territori e coordinata da un capo politico-portavoce che risponda direttamente a questa governance.
Ma bisogna muoversi subito. Un rimpasto? Il governo è questo e non deve cambiare.
Chi è al governo pensi a destinare al meglio le risorse del Recovery Fund,
servono soldi per le famiglie, il ceto medio, le partite Iva e le piccole e medie imprese”.
 

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