PREFERIREI MORIRE DI PASSIONE CHE DI NOIA.

Mani libere per gli sporchi affari ........e per darci il colpo finale. Tutti schiavi del neoliberismo.


Ad oggi lo stato di emergenza, con tutto ciò che si porta dietro, scade il prossimo 15 ottobre.

Ma l’impennata di nuovi contagi in Europa
e la necessità di evitare un nuovo lockdown totale
che rischierebbe di essere fatale all’economia nazionale, il governo sta seriamente valutando il prolungamento al 31 dicembre.


Come spiega il quotidiano Il Messaggero, le opzioni sono tre:


  • smontare lo status pezzo per pezzo mantenendo attive solo le porzioni ritenute ancora utili

  • una mini-proroga di poche settimane

  • la conferma dello stato di emergenza fino al 31 dicembre.

Il Governo dovrebbe comunque coinvolgere il Parlamento nella discussione, facendo votare una risoluzione sia alla Camera che al Senato
per attivare i poteri volti ad affrontare la situazione con tempestività ed efficacia, in primis con i Dpcm
che consentono di emanare norme in deroga all’ordinamento vigente, come successo per il lockdown.


Nel caso non si dovesse rinnovare lo stato di emergenza, dal 16 ottobre cambierebbero le regole per lo smart working introdotto negli ultimi mesi:
tornerebbero le regole ordinarie, con un accordo firmato dai singoli lavoratori che fissi modalità di esecuzione della prestazione lavorativa fuori dai locali aziendali.
Occorrerà poi definire quali saranno gli strumenti da usare, i tempi di riposo e le misure per assicurare il diritto alla disconnessione.

In caso di prolungamento, invece, tornerebbero attuali le regole utilizzate fino ad ora,

così come per i congedi parentali per i genitori con figli in età scolare.
 
Le leggi, sulla carta, sarebbero uguali per tutti.

Eppure non siamo chiamati a rispettarle allo stesso modo.

Per avere certezza di questo triste malcostume, basta guardare l’operato del governo giallorosso, protagonista di una clamorosa impresa:
sbandierare il proprio impegno per la stesura di una nuova legge sul conflitto di interessi, più dura, salvo poi non rispettare quella attualmente in vigore.

Un dato clamoroso emerso dalla relazione semestrale dell’autorità Antitrust (Agcm) inviata alle due Camere.

Secondo i dati raccolti, ben 134 famigliari dei 68 ministri in carica si sono rifiutati di inviare all’autorità le proprie dichiarazioni patrimoniali, dovute per legge.


L’Agcm non ha diffuso i nomi dei nuclei famigliari che hanno deciso di violare la legge “nonostante ripetuti solleciti”, proteggendo la loro privacy.

Ma i numeri sono comunque clamorosi e lasciano spazio a interrogativi inquietanti:

perché il 44% dei parenti di onorevoli ha preferito sfidare la legge pur di tenere segreto il proprio patrimonio?


Cosa hanno da nascondere agli occhi dello Stato?

Domande che sorgono spontanee proprio mentre il reggente 5 Stelle Vito Crimi annuncia una nuova,
ben più severa legge proprio sul conflitto d’interesse.

La coerenza, d’altronde, non fa più parte da tempo delle linee guida dell’esecutivo giallorosso.

Delle leggi che imponevano trasparenza ai parlamentari, tra l’altro, non restano ormai che poche tracce, smontate quasi in toto col passare degli anni.

L’obbligo di pubblicazione online dei redditi, per esempio, è andato a cadere.

Rimarrebbe, bene usare il condizionale a questo punto, quello nei confronti dell’Antitrust, al quale non ci si dovrebbe poter sottrarre.

E invece, tra il dire e il fare, c’è di mezzo un oceano di silenzi.


La ratio della norma è quella di evitare che un onorevole possa nascondere eventuali conflitti che lo riguardano da vicino
intestando le quote di una società, per esempio, alla moglie, ai figli, a un fratello o una sorella.

Per questo l’Antitrust avrebbe bisogno di quei dati, utili a evitare che situazioni del genere possano restare nell’ombra.

Evidentemente, però, la trasparenza non è un obbligo. Almeno, non per tutti.
 
In ritardo sui tamponi, sulle mascherine e… facile intuire di chi si stia parlando.

Basta semplicemente guardare la vicenda dal suo principio per realizzare la mostruosità del gigantesco pasticcio combinato con la fornitura dei banchi.

Principale artefice del capolavoro, il commissario straordinario Domenico Arcuri, il quale prima ha indetto il bando,
poi, resosi conto dell’assurda richiesta da lui stesso pretesa di rientrare in quei tempi e con quelle quantità, ha iniziato a ritrattare.

Dovevano arrivare l’8 settembre, al massimo il 12, poi siamo passati a “entro la fine del mese” e per concludere entro il 31 ottobre.

Le consegne sono in clamoroso ritardo.

Su 2.408.434 banchi monoposto, con annesse sedute, ne sono giunti a destinazione solo 300mila.

Per montare una vicenda così ci vuole sicuramente talento.

Stando ai calcoli effettuati dalla Verità, che pone chiarezza sulla questione,

“per rispettare le scadenza bisognerebbe portarne a partire da oggi (28 settembre), incluse le domeniche, 61.764 al giorno”.




Unknown-1-5.jpeg



Sabato sera, sul sito del governo, sono finalmente apparsi i documenti relativi al bando, finora tenuti nascosti.

Finalmente dall’alto ci degnano di un minimo di trasparenza, ma più che mettere trasparenza i dati che risultano appesantiscono la situazione.

Sono numerose le incongruenze tra le dichiarazioni fatte durante lo sviluppo della vicenda e ciò che nero su bianco è stampato sulla carta.


Il 13 agosto si appredeva che 11 aziende si erano aggiudicate la fornitura.

Stando a quanto si legge ufficialmente, “per i lotti A e B, alla data del 12 agosto, risultavano affidatarie 13 ditte”,
i cui nomi riportiamo di seguito: “Moblferro, associata a Vastarredo, Camillo Sirianni, Sud Arredi, Paci,
Arredascuola e Biga srl (mezzo milione di pezzi); Beton, Quadrifoglio (600mila arredi) , Nexus, la portoghese Nautilus sa, Principe Italy spa ed Esel group”.


Il giorno dopo la scadenza del bando, il 6 agosto, il commissario va in tv e durante la trasmissione In Onda, su La 7, vende il suo imminente successo:

“La gara prevede che l’8 settembre i banchi vengano installati nelle classi”.


Ma doveva già aver intuito che il bando non era adatto a soddisfare il fabbisogno.

Infatti, solo sei giorni dopo, salta fuori la relazione che riconosceva come

“non fosse possibile soddisfare integralmente le esigenze rappresentate dal ministero dell’Istruzione”.



Scuole-chiuse-1-633x360-1.jpg



Così partono le trattative private, “una procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara”.

Trattative che si concludono il 9 settembre con altri cinque contratti:
“Hmy Financiere (Francia), Kinnarps Ab (Svezia, con sede italiana a Cantù), Vs Vereinigte Spezialmobelfabriken (Germania), Aurora group e Rti Gonzagarredi”.

Ciascuna si è impegnata a fornire 200mila banchi.

Ma come? Arcuri in trasmissione non aveva detto che i banchi sarebbero arrivati l’8 settembre?


Come è possibile se solo il 9 settembre “vengono ultimati gli accordi con le altre aziende interpellate”.


Il 9 settembre, cioè 24 ore dopo il giorno in cui Arcuri aveva proclamato solennemente che sarebbero stati installati i banchi, si concludono le trattative.



Ma le stranezze non finiscno qui.

Perchè la struttura comissariale dichiara che la Nexus, ,ditta di Ostia con un solo dipendente,
che doveva realizzare 180mila banchi per quasi 45 milioni di euro, “non era mai stata presa in considerazione”.

Eppure dai documenti resi pubblici, risulta che al 12 agosto era proprio una della affidatarie del lotto A.



A questa si aggiunge un’atra ditta estromessa, sulla cui esistenza Arcuri si era pronunciato in una intervista di Repubblica: la e-Picuro.

Il commissario in quella occasione riconosceva che, oltre all’azienda di Ostia, le verifiche avevano “prodotto risultati negativi” anche su un altro fornitore, appunto la e-Picuro.


Tra aziende tolte e aziende messe, sicuramente spicca l’Aurora group, che secondo quanto riferisce sempre la Verità,
non avrebbe nulla a che vedere con il settore di produzione banchi.

L’azienda, “non si occupa nemmeno lontanamente di arredi, bensì di macchine agricole”. I misteri di Arcuri.



A giudicare dall’entità del pasticcio, prima che la questione trovi il suo fine
(di lieto fine arrivati a questo punto non si può proprio parlare, l’unica speranza che resta è che si arrivi quanto prima a una conclusione),
passerà tempo e comunque non sorprenderebbe se venisse fuori qualche altro scarabocchio.
 
Ci sarebbe da piangere.........ma "mi vien da ridere".:clapclap::clapclap::jolly:


Giuseppe Conte dichiara guerra a Matteo Salvini, mettendo al primo posto tra le prorità del governo giallorosso il varo di nuovi decreti discurezza,

che saranno “all’ordine del giorno del primo consiglio di ministri utile”.


Parole nette, quelle pronunciate dal premier nel corso del Festival dell’Economia di Trento.

Intervenuto a distanza da Palazzo Chigi, il capo del governo ha così assicurato che è intenzione della sua squadra

“allargare il meccanismo di sicurezza e di protezione per i cittadini e per i migranti, che spesso arrivano in Italia in condizioni di fortuna.
Si tratta di un progetto molto più ampio rispetto a quello del passato”.


Conte ha affrontato a lungo il tema dei migranti, parlando anche della trattativa in corso con l’Europa per la loro redistribuzione:
“Se si afferma un meccanismo obbligatorio – ha sottolinea guardando all’Ungheria – chi si sottrae dovrà avere un meccanismo penalizzante”.

Più in generale “nessuno può pensare che la gestione dei flussi migratori possa essere risolta da un mese all’altro.
È un percorso che stiamo facendo, la proposta Ue è un passaggio non trascurabile, ma sicuramente non è l’approdo della politica migratoria europea”.


Parole, quelle del premier, che arrivano a stretta distanza da quelle di
Ursula von der Leyen che, ribadendo ancora una volta il suo “no” ai ricollocamenti obbligatori,
ha di fatto confermato lo status italiano di campo profughi dell’Europa.

Conte, però, non sembra preoccupato.

Anzi, archiviato il tema migranti si è lanciato sul fronte pensioni, spiegando che il rinnovo di Quota 100 “non è all’ordine del giorno”
e annunciando prossimi interventi sul fronte dei lavori usuranti, perché “non possiamo mettere tutti sullo stesso piano”.

Un favore innanzitutto a Matteo Renzi, che ha salutato l’intervento del premier con particolare entusiasmo:

“È una svolta importante. Dopo aver cambiato linea in Europa, torniamo alla serietà sulle pensioni
rimediando ancora ai danni del governo populista. Prossimo obiettivo: il Mes”.



Ecco, appunto.

Conte non ne ha parlato apertamente ma è chiaro che, ora che i Cinque Stelle sono totalmente subalterni alle altre forze di governo,
la partita sul Fondo Salva-Stati è più aperta che mai.

Considerando la debolezza del Movimento, uscito a pezzi dalle Regionali, non è da escludere un cedimento anche su quel fronte.
 
Quota 100 non sarà riformata ma cancellata una volta finito il suo corso.

A dare l’annuncio è stato Conte al Festival dell’economia di Trento:

Quota 100 è un progetto triennale di riforma che veniva a supplire a un disagio sociale. Non è all’ordine del giorno il rinnovo di quota 100“.

Per quanto riguarda il sistema previdenziale in generale, il premier annuncia che

“tra le riforme che ci aspettano possiamo anche lavorare su quella delle pensioni.
Dobbiamo metterci attorno a un tavolo: ad esempio fare una lista dei lavori usuranti mi sembra la prospettiva migliore.
Un professore universitario vorrebbe lavorare a settant’anni, mentre in tanti lavori usuranti non possiamo prospettare una vita lavorativa così lunga.
Dobbiamo avere il coraggio di differenziare”.


L’annuncio di Conte fa esultare il leader di Italia Viva Matteo Renzi:

“Aver portato a casa la cancellazione di Quota 100 è un passo in avanti, così come pure l’aver spostato l’Italia su posizioni europeiste,
basta con i gilet gialli, andiamo con Macron e la Merkel, aver imposto il lavoro su Family Act e Piano Shock”.

Poi l’ex premier ritorna alla carica con il prestito-trappola Ue:

“Oggi abbiamo da fare un passo in più, chiedere il Mes. Dopo l’abolizione di Quota 100, i 37 miliardi per la sanità pubblica del Mes: ci arriveremo, passo dopo passo”.
 
Abbiamo assistito, nel corso dei mesi passati,
a scene singolari per la propria rarità e stranezza, derivanti dall’emergenza sanitaria.

Durante il lockdown, con cadenza giornaliera, persone di varie età sono state multate per le motivazioni più stravaganti:

corridori solitari, intenti a correre su una spiaggia, venivano rincorsi da droni o da poliziotti in persona.

Ancor più penose e gravi le immagini di anziani, desiderosi magari di una camminata al parco,
che venivano minacciati ed a cui veniva di tornare nelle proprie abitazioni, in virtù delle assurde regole delineate dal governo.

Scene che fino ad un anno fa apparivano trama per un film fantasy, sono poi diventate prassi della squallida vita che portiamo avanti da mesi.

Una prassi che oramai sembra non sconvolgere tanta gente.


Spinge a riflettere che, in funzione di una prevenzione sanitaria,

si sia lucidamente attuato l’annullamento della socialità,

della condivisione di spazi,

di momenti di vita che per l’essere umano hanno un peso psicologico non indifferente.


Interfacciarsi con il prossimo, discutere e frequentare ambienti pubblici può apparire dettaglio:

in realtà rappresenta modello di sviluppo e cura della persona, in particolare per le fasce d’età infantili.



I dati sulla mortalità e sul ricovero da coronavirus per i bambini ed i giovani sono vicini all’inesistenza.

Siamo invece convinti che per loro misure come la quarantena prolungata per mesi, o la chiusura dei locali,
siano state davvero dannose, con l’aggravante dell’accusa o dell’indifferenza generale.

Risposte a queste perplessità possono trovarsi nell’analisi della società nostrana:
pur senza disporre di profonde conoscenze sociologiche, è possibile riscontrare una perseveranza nel non scegliere,
attraverso l’estenuante rimandare le decisioni, attraverso scaricabarile e scusanti,
metodo attuativo di cui l’attuale premier in carica è esempio calzante.


Non a caso nel corso dell’emergenza il suo gradimento è sembrato crescere notevolmente: una sorta di ringraziamento del popolo per l’avallare delle paure.

Ben venga per gli ammiratori del regime orwelliano che ci attanaglia il culto del terrore, attuato tramite rimprovero e minaccia.

La concessione di libertà è considerata premio.

Poter rivedere un parente o un amico, portare il figlio al cinema o a scuola,
tornare a lavorare non è più saldo diritto inalienabile, bensì una possibilità da conquistare con l’obbedienza e l’approvazione.


Oltre a prendersela con la politica attuatrice di queste follie, vi è da attuare profonda autocritica:

quando la società procede col fossilizzarsi, con la delegazione agli altri della propria vita,

non vi è da sorprendersi per la perdita della bussola quando scoppia la tempesta.

Si finisce così per oltrepassare il filo tra una prevenzione verso un pericolo, ed il trasformare la vita in tempo che scorre.

Qualcosa che si è costretti ad attraversare ma che non vale la pena di vivere.

Ed ancor più drammatico è proseguire questo cammino con il sorriso, o in questo caso con la mascherina, sulla faccia.
 
Questa storia è vergognosa. Ma ce ne sarebbero tante altre da raccontare,
da chi ha vissuto in diretta questa megalomania da decerebrati infantili.

"Intubato, sofferente e solo come un Cristo in croce.
È morto così nostro padre, senza il conforto della mano di una figlia sulla sua,
in una sofferenza psicologica disumana di cui ero testimone quando lo vedevo sul tablet,
pur essendo a cinque minuti dall’ospedale".


Ricoverato in terapia intensiva con un quadro cardiologico grave, solo dopo è risultato positivo al coronavirus.

"Ma aveva una carica virale bassa, rimanendo praticamente asintomatico, senza traccia nei polmoni", racconta la figlia.


Con la positività del tampone scatta il protocollo antivirus anche per l’illustre professore: isolamento e divieto assoluto di contatti.

La figlia però non si rassegna.
Si rivolge alla direzione sanitaria chiedendo una deroga.

"Mio padre stava vivendo le sue ultime ore e saperlo solo era una sofferenza disumana... è stato un padre meraviglioso.
Avevo chiesto se era possibile andare a dargli un ultimo bacio".

Niente da fare la legge implacabile non ammette eccezioni.

Unico conforto, un ultimo e veloce addio alla salma del padre, poi quasi rinfacciato come uno strappo alla regola.

"Essendoci stato detto che i pazienti Covid vengono ancora messi in un sacco e nella bara
senza che le famiglie possano dar loro un estremo saluto, come se scomparissero in mare", ha aggiunto la figlia.

Così, bardate con stivali, tute, maschere e guanti forniti dall’impresa funebre,
hanno potuto mettere almeno due fotografie e una lettera nel sacco prima che venisse portato via.


"Il rischio sanitario era praticamente nullo".
 
Si sa qualcosa sudi possibile aumento accise su diesel?
Leggevo che con la scusa inquina lo portano sopra benzina
 
Un montuoso giardino nero incastonato nella terra del fuoco.

Non è una metafora, è il significato letterale e tristemente profetico di Nagorno-Karabakh
(Nagorno in russo significa “montagna”, Karabakh in turco sta per “giardino nero”),
provincia autoproclamatasi autonoma nel cuore dell’Azerbaijan (azer vuole dire “fuoco”) e a due passi dall’Armenia.

Un ampio limes martoriato da trent’anni, ovvero da quando è in atto il più lungo conflitto dalla caduta dell’Unione Sovietica.

Anzi, a dirla tutta la prima tempesta di fuoco nel giardino nero rimbombò nel 1988, prima che evaporasse il comunismo in Russia e cadesse il Muro di Berlino.

Tutto iniziò quando i circa 140mila armeni che vivevano in quest’area, grande più o meno quanto l’Umbria,
si ribellarono all’azerificazione imposta da Stalin dichiarando la nascita della Repubblica del Karabakh Montagnoso.


Gli abitanti di questa terra caucasica erano e sono per lo più armeni, ma l’Azeribajan ne rivendica da sempre la sovranità.

Una guerra mai davvero spenta, nonostante qualche anno di relativa quiete.

Cristiani contro islamici, armeni contro azeri e le solite potenze a muovere i fili.

Da una parte la Russia, principale tutore della causa armena, dall’altra la Turchia che soprattutto dal 1993 punta tutto sull’Azerbaijan
– nazione turcofona ricca di petrolio – e parla di “provocazioni” dell’atavico nemico armeno.

Nel mezzo, tra i due litiganti, c’è però l’Iran che adesso si pone come mediatore tra le parti.

E se guardiamo la carta geografica tutto questo ha un senso, a prescindere dallo scontro etnico-religioso.


nagorno.jpg



Perché di mezzo c’è sempre una questione economica, che fa rima con strategica.

Nessuno è disposto a mollare l’osso e ogni tanto, come adesso, i molossi che se lo contendono iniziano a ringhiare.

I negoziati per cercare di trovare un compromesso tra i contendenti si svolgono ogni anno,
con cadenza quasi mensile, ma sono sempre risultati inutili.


Tutti continuano a rivendicare le proprie posizioni e dunque non se ne esce.


Così siamo giunti a una nuova escalation del conflitto che ha generato la deflagrazione.

Erevan ha accusato ieri Baku di aver bombardato e distrutto due elicotteri e tre carri armati armeni,
il governo azero ha replicato che è stata una ritorsione alle inaccettabili provocazioni armene
e ha riferito di un elicottero abbattuto e una dozzina di basi missilistiche attaccate.

Oggi il presidente della regione contesa, Araik Arutiunian, ha parlato di “decine di militari uccisi”.

Le vittime tra i soldati separatisti sarebbero almeno 15, stando a quanto riferito dal ministero della Difesa del Nagorno-Karabakh.

Calcolatrice alla mano in totale i militari uccisi da ieri sarebbero quindi 32.

Ma in guerra quasi mai vengono risparmiati i civili e questo conflitto non fa eccezione:
almeno cinque civili azeri e due armeni sarebbero morti nella provincia scissionista.

Il governo di Baku però non conferma, nel senso che non ha parlato di vittime tra i propri militari.

Ha però lanciato l’ennesimo ultimatum a Erevan: “Il ministero della Difesa dà l’ultimo avvertimento all’Armenia.
Se necessario verranno prese adeguate misure di ritorsione”, si legge in una nota del ministero azero.

Nel frattempo in entrambe le nazioni ansia e tensione aumentano di ora in ora,
con il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, che ha annunciato una mobilitazione parziale.

L’Armenia non ha invece usato mezze misure, annunciando la mobilitazione generale.

Ma in entrambi i Paesi è stata proclamata la legge marziale e in diverse città da ieri è stato proclamato il coprifuoco, a partire dalla capitale azera.


A livello internazionale nessuno riconosce l’autonomia del Nagorno-Karabakh, ma tutti chiedono l’avvio dei negoziati: Onu, Ue e Russia in primis.

Sempre ieri, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e l’omologo turco Mevlut Cavusoglu,
in un colloquio telefonico si sono scambiati opinioni sul conflitto arrivando a una conclusione concordata: immediato cessate il fuoco.

Il problema è che questa per la Turchia è soltanto una posizione ufficiale da sbandierare, perché intanto sottotraccia getta benzina sul fuoco.

Prova ne è che Ankara avrebbe inviato a Baku, a sostegno degli azeri, circa 300 jihadisti filo-turchi.


Provengono tutti dalla Siria e verosimilmente erano impiegati nel nord della Repubblica araba contro i curdi e l’esercito di Damasco.

Il “sultano” Erdogan segue dunque lo stesso schema libico, dapprima invia mercenari per supportare gli alleati che giudica semplicemente feudi della Turchia.

Poi, una volta acquisito maggiore potere contrattuale, si siede al tavolo dei negoziati da una posizione di forza.


Ma non è detto che anche questa volta gli riesca il piano collaudato altrove.
 
Paolo Gentiloni torna alla carica e serve un assist perfetto al Pd sul fronte del Mes, il prestito-trappola Ue per le spese sanitarie.

L’Italia è uno dei Paesi europei che avrebbe un vantaggio maggiore nel richiedere il Mes
, assicura il commissario Ue per l’Economia.

L’esponente dem sottolinea che questi soldi l’Italia li deve chiedere per migliorare il sistema sanitario.

Insomma, sembra di sentire il segretario del Pd Nicola Zingaretti, che da tempo è in pressing sul premier Giuseppe Conte.
Pressing aumentato dopo l’affermazione del Pd alle regionali e la debacle del M5S, fino ad ora contrario al Mes (ma adesso con scarsa voce in capitolo).


“Ho ripetuto più volte che il lavoro che abbiamo fatto a Bruxelles è stato quello di togliere le condizionalità
che erano nei programmi economici generali dello scorso decennio, quindi oggi questa linea di credito non è soggetta a condizionalità.

La decisione spetta ai singoli governi – fa presente Gentiloni – ma l’Italia ha bisogno di migliorare il proprio sistema sanitario,
che ha dato ottima prova durante la crisi ma ha messo in luce necessità di miglioramenti.

Certamente l’Italia è tra i Paesi che possono avere un vantaggio maggiore rispetto ad altri visti i tassi di interesse”
che sarebbero applicati al prestito, ribadisce il commissario Ue da vero imbonitore.


Viene da pensare che all’oste (di Bruxelles) non bisogna di certo chiedere se il vino (in prestito) è buono.


Il disegno del Pd è quello di vincolare l'Italia a Bruxelles.

Certo, il prezzo da pagare è il commissariamento dell’economia nazionale.

Ma l’ipotesi più che probabile della Troika in casa non spaventa i dem, così supinamente filo-Ue e terrorizzati di perdere la poltrona.



“Il Pd esce come il vero vincitore delle regionali e deve prendere il timone della legislatura imprimendo al governo una svolta decisa.
Dall’assistenzialismo si deve passare alla cultura del lavoro, dai prepensionamenti ad occuparsi dei giovani,
dal caos alla gestione ordinata dei migranti: non c’è solo Quota 100. Conte deve dire parole altrettanto chiare sul Mes, sul reddito di cittadinanza e sui decreti sicurezza”.

Così l’europarlamentare dem Alessandra Moretti al Tg4 rincara la dose di pressing sul premier.

A sentire poi il segretario di +Europa Benedetto Della Vedova, il più filo-Ue e anti-italiano dei partiti presenti nel nostro Paese,
ora il governo giallofucsia non ha più scuse per rimandare ancora.
“Per dimostrare un po’ sincerità nel cambio di passo sarebbe bene che la maggioranza imponga a Conte
l’immediata richiesta di accesso ai fondi del Mes
“, commenta Della Vedova.


Il Mes è una partita chiusa, è una fregatura.
Ci sono tante altre maniere meno pericolose e più dirette, se poi fosse veramente così vantaggioso
qualcuno mi spieghi perché nessun Paese europeo usa i soldi del Mes
“,

A tutt’oggi in effetti l’unico Stato membro ad aver richiesto il prestito-trappola Ue è Cipro.
 

Users who are viewing this thread

Back
Alto