Val
Torniamo alla LIRA
Ora che abbiamo chiarito in cosa consiste questo sofisma, sarà opportuno riflettere sulle possibili controindicazioni allo stesso,
sugli antidoti logici e dialettici in grado di depotenziarne la portata.
Direi che sono sostanzialmente tre:
. 1) quello più semplice lo abbiamo già esplicitato: la falsa analogia è una fallacia proprio perché è falsa,
perché l’analogia tra squadre sportive e nazioni libere e democratiche è basata su pochissime proprietà comuni e non consente ulteriori, e indebite, estensioni.
. 2) La fallacia è smentita dalla storia e dalla cronaca.
Anche nell’economia contemporanea e nel mondo globalizzato ci sono innumerevoli esempi di Paesi che vivono, anzi prosperano addirittura,
senza essere inseriti all’interno di qualche colossale entità statuale o sovrastatuale con le dimensioni di un impero.
Pensate agli Stati, pur di dimensioni ragguardevoli, estranei all’Unione europea
(insomma, non stiamo parlando di realtà micro come San Marino, Liechtenstein, Monaco, Città del Vaticano o Andorra):
oltre al Regno Unito, ufficialmente uscito dall’UE, la Norvegia, la Svizzera, l’Islanda, la Turchia, la Serbia e il Montenegro.
Ma non basta: non hanno l’euro un bel po’ di Paesi aderenti all’Unione europea: la Croazia, l’Ungheria, la Polonia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Bulgaria, la Svezia, la Danimarca.
. 3) Infine, l’ultimo punto, il più importante: la falsa analogia è anche atrocemente contraddittoria
rispetto ai presunti “valori” fondanti sbandierati ai quattro venti e propagandati a piene mani dai filo-europeisti a oltranza.
Tale fallacia presuppone, infatti, che il mondo sia un campo di battaglia dove l’unico rapporto concepibile tra i popoli sia quello di una spietata competizione.
Mors tua vita mea, dicevano gli antichi.
L’esatto contrario dei principii di pace, cooperazione e democrazia cui si ispirerebbe, secondo i suoi paladini, la UE.
Questa fallacia talora viene declinata in modo leggermente diverso:
siccome il mercato domina incontrastato a livello planetario e quindi porta inevitabilmente a fusioni
di “realtà” economico- aziendal-finanziarie sempre più forti, allora – per analogia –
anche gli Stati devono unirsi e federarsi in realtà sovra-nazionali se vogliono competere.
Ma anche in tal caso, il sofisma è “guasto” fin da principio:
uno Stato non è un’azienda e, in quanto tale, proprio perché sovrano indiscusso sul proprio territorio,
può imporre leggi a chiunque vi transiti, multinazionali comprese.
Fino al punto da nazionalizzare, se serve, interi comparti dei settori industriali ed energetici del Paese.
Nel caso dell’Italia, abbiamo addirittura uno straordinario articolo della Costituzione, il 43,
totalmente inevaso a oggi, cioè mai realizzato, ma ancora vigente, che recita così:
«A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato,
ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali
o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale».
Eppure, la falsa analogia è usata spesso e volentieri dagli europeisti tutti d’un pezzo.
Prendiamo una recente intervista concessa da Massimo D’Alema a «Il Foglio» dove l’indimenticabile “Baffino” dice testualmente:
«In un mondo dominato dal confronto tra Stati Uniti e Cina, i singoli Paesi europei sono destinati a non avere alcun peso,
perciò la risposta alla domanda di sovranità cui accennavo all’inizio, non può essere un ritorno ai nazionalismi ma è invece l’affermazione di un sovranismo europeo».
Quando Napoleone occupò mezza Europa – a vale lo stesso per qualsiasi altro conquistatore precedente e successivo –
adoperava la stessa fallace giustificazione con chi si ostinava a non comprendere le sue ottime “ragioni”:
bisognava sostituire il sovranismo degli Stati sottomessi con un nuovo sovranismo allargato
(per la precisione, nel caso del generale còrso: un sovranismo “francese”).
Un altro insuperabile esempio di questo sofisma è il seguente incipit di un articolo pubblicato su «Micromega»
da William Mitchel e Thomas Fazi il 13 novembre 2017 con il quale gli autori hanno ironicamente
“fatto il verso” a un certo modo “corrotto” di ragionare tipico dei fanatici europeisti e soprattutto, e paradossalmente, delle moderne sinistre continentali:
«Diciamo le cose come stanno: nell’odierna economia internazionale, sempre più complessa e interdipendente, la sovranità nazionale è diventata irrilevante.
La crescente globalizzazione economica ha reso i singoli Stati sempre più impotenti nei confronti delle forze del mercato.
L’internazionalizzazione della finanza e il crescente potere delle multinazionali hanno eroso la capacità dei singoli Stati
di perseguire autonomamente politiche sociali ed economiche – in particolare di carattere progressista-redistributivo – e di assicurare la prosperità ai propri popoli.
Pertanto, l’unica speranza di conseguire qualsiasi cambiamento significativo è che i paesi “mettano insieme” la loro sovranità
e la trasferiscano a istituzioni sovranazionali (come l’Unione europea) che siano abbastanza grandi e potenti da far sentire la loro voce,
riconquistando così a livello sovranazionale la sovranità persa a livello nazionale.
In altre parole, per preservare la loro sovranità “reale”, gli Stati devono limitare la loro sovranità formale».
In realtà, gli Stati non hanno affatto bisogno di mettersi insieme così da essere
«abbastanza grandi e potenti da far sentire la loro voce, riconquistando così a livello sovranazionale la sovranità persa a livello nazionale».
E ciò per il semplice fatto che la sovranità statale o è dello Stato o non è.
Ma anche qui la falsa analogia impera e il suo svolgimento, in parole povere, è il seguente:
siccome il nome di un’azienda, anche celebre, mettiamo pure la “Alfa Romeo”, continua a esistere
anche se l’Alfa Romeo è stata mangiata dalla Fiat e poi magari dalla FCA
(semplicemente, il suo management viene trasferito a un livello più alto della gerarchia aziendale),
allora anche l’Italia continua a esistere anche se viene “mangiata” dagli Stati Uniti d’Europa;
semplicemente, la sovranità italiana si esercita negli Stati Uniti d’Europa.
Senonché, in questo caso, avremmo non già una sovranità dello Stato italiano,
ma una sovranità sullo Stato italiano da parte di una entità terza.
La sovranità non è come il marchio di una fabbrica di automobili, trasferibile da un capitalista all’altro senza rischi di scoloritura.
È, piuttosto, la quintessenza della identità di una comunità civica di cittadini che si riconoscono in un patrimonio simbolico, tradizionale, linguistico, valoriale.
Uno Stato è uno Stato e, nel proprio territorio, fa e decide ciò che vuole e ciò che crede.
La Svizzera e la Norvegia stanno lì a dimostrarlo, ma non sarebbe neppure necessario scomodare tali esempi
se non ci fosse la falsa analogia in oggetto a inquinare il nostro corretto modo di ragionare.
Quindi, non è affatto vero che la globalizzazione ha reso i singoli Stati impotenti verso le forze del capitale.
Semmai, la globalizzazione rende impotente chi abdica alla propria sovranità sul capitale e sull’economia.
E ciò è ancor più vero laddove la realtà sovranazionale
(la quale de-sovranizza, cioè prosciuga l’autonoma indipendenza di una Nazione)
è qualcosa di analogo alla UE.
Cioè una organizzazione nata non per difendere gli Stati sovrani,
ma piuttosto per renderli impotenti di fronte al libero dispiegarsi delle forze del capitale trans-nazionale.
Da tale pseudo-analogia dobbiamo liberarci se non vogliamo cadere vittime di una “ansia da prestazione”.
Secondo la quale, l’unica logica accettabile nei rapporti tra popoli sarebbe quella del mercato:
dove i bravi esportano a rotta di collo e sono quindi virtuosi; gli altri invece, quelli “scarsi”,
sono obbligati a importare così da indebitarsi e da rischiare il default.
Non dimentichiamoci che proprio la frenesia del capitalismo predatorio
è alla base di fenomeni come il colonialismo e l’imperialismo.
sugli antidoti logici e dialettici in grado di depotenziarne la portata.
Direi che sono sostanzialmente tre:
. 1) quello più semplice lo abbiamo già esplicitato: la falsa analogia è una fallacia proprio perché è falsa,
perché l’analogia tra squadre sportive e nazioni libere e democratiche è basata su pochissime proprietà comuni e non consente ulteriori, e indebite, estensioni.
. 2) La fallacia è smentita dalla storia e dalla cronaca.
Anche nell’economia contemporanea e nel mondo globalizzato ci sono innumerevoli esempi di Paesi che vivono, anzi prosperano addirittura,
senza essere inseriti all’interno di qualche colossale entità statuale o sovrastatuale con le dimensioni di un impero.
Pensate agli Stati, pur di dimensioni ragguardevoli, estranei all’Unione europea
(insomma, non stiamo parlando di realtà micro come San Marino, Liechtenstein, Monaco, Città del Vaticano o Andorra):
oltre al Regno Unito, ufficialmente uscito dall’UE, la Norvegia, la Svizzera, l’Islanda, la Turchia, la Serbia e il Montenegro.
Ma non basta: non hanno l’euro un bel po’ di Paesi aderenti all’Unione europea: la Croazia, l’Ungheria, la Polonia, la Romania, la Repubblica Ceca, la Bulgaria, la Svezia, la Danimarca.
. 3) Infine, l’ultimo punto, il più importante: la falsa analogia è anche atrocemente contraddittoria
rispetto ai presunti “valori” fondanti sbandierati ai quattro venti e propagandati a piene mani dai filo-europeisti a oltranza.
Tale fallacia presuppone, infatti, che il mondo sia un campo di battaglia dove l’unico rapporto concepibile tra i popoli sia quello di una spietata competizione.
Mors tua vita mea, dicevano gli antichi.
L’esatto contrario dei principii di pace, cooperazione e democrazia cui si ispirerebbe, secondo i suoi paladini, la UE.
Questa fallacia talora viene declinata in modo leggermente diverso:
siccome il mercato domina incontrastato a livello planetario e quindi porta inevitabilmente a fusioni
di “realtà” economico- aziendal-finanziarie sempre più forti, allora – per analogia –
anche gli Stati devono unirsi e federarsi in realtà sovra-nazionali se vogliono competere.
Ma anche in tal caso, il sofisma è “guasto” fin da principio:
uno Stato non è un’azienda e, in quanto tale, proprio perché sovrano indiscusso sul proprio territorio,
può imporre leggi a chiunque vi transiti, multinazionali comprese.
Fino al punto da nazionalizzare, se serve, interi comparti dei settori industriali ed energetici del Paese.
Nel caso dell’Italia, abbiamo addirittura uno straordinario articolo della Costituzione, il 43,
totalmente inevaso a oggi, cioè mai realizzato, ma ancora vigente, che recita così:
«A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato,
ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali
o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale».
Eppure, la falsa analogia è usata spesso e volentieri dagli europeisti tutti d’un pezzo.
Prendiamo una recente intervista concessa da Massimo D’Alema a «Il Foglio» dove l’indimenticabile “Baffino” dice testualmente:
«In un mondo dominato dal confronto tra Stati Uniti e Cina, i singoli Paesi europei sono destinati a non avere alcun peso,
perciò la risposta alla domanda di sovranità cui accennavo all’inizio, non può essere un ritorno ai nazionalismi ma è invece l’affermazione di un sovranismo europeo».
Quando Napoleone occupò mezza Europa – a vale lo stesso per qualsiasi altro conquistatore precedente e successivo –
adoperava la stessa fallace giustificazione con chi si ostinava a non comprendere le sue ottime “ragioni”:
bisognava sostituire il sovranismo degli Stati sottomessi con un nuovo sovranismo allargato
(per la precisione, nel caso del generale còrso: un sovranismo “francese”).
Un altro insuperabile esempio di questo sofisma è il seguente incipit di un articolo pubblicato su «Micromega»
da William Mitchel e Thomas Fazi il 13 novembre 2017 con il quale gli autori hanno ironicamente
“fatto il verso” a un certo modo “corrotto” di ragionare tipico dei fanatici europeisti e soprattutto, e paradossalmente, delle moderne sinistre continentali:
«Diciamo le cose come stanno: nell’odierna economia internazionale, sempre più complessa e interdipendente, la sovranità nazionale è diventata irrilevante.
La crescente globalizzazione economica ha reso i singoli Stati sempre più impotenti nei confronti delle forze del mercato.
L’internazionalizzazione della finanza e il crescente potere delle multinazionali hanno eroso la capacità dei singoli Stati
di perseguire autonomamente politiche sociali ed economiche – in particolare di carattere progressista-redistributivo – e di assicurare la prosperità ai propri popoli.
Pertanto, l’unica speranza di conseguire qualsiasi cambiamento significativo è che i paesi “mettano insieme” la loro sovranità
e la trasferiscano a istituzioni sovranazionali (come l’Unione europea) che siano abbastanza grandi e potenti da far sentire la loro voce,
riconquistando così a livello sovranazionale la sovranità persa a livello nazionale.
In altre parole, per preservare la loro sovranità “reale”, gli Stati devono limitare la loro sovranità formale».
In realtà, gli Stati non hanno affatto bisogno di mettersi insieme così da essere
«abbastanza grandi e potenti da far sentire la loro voce, riconquistando così a livello sovranazionale la sovranità persa a livello nazionale».
E ciò per il semplice fatto che la sovranità statale o è dello Stato o non è.
Ma anche qui la falsa analogia impera e il suo svolgimento, in parole povere, è il seguente:
siccome il nome di un’azienda, anche celebre, mettiamo pure la “Alfa Romeo”, continua a esistere
anche se l’Alfa Romeo è stata mangiata dalla Fiat e poi magari dalla FCA
(semplicemente, il suo management viene trasferito a un livello più alto della gerarchia aziendale),
allora anche l’Italia continua a esistere anche se viene “mangiata” dagli Stati Uniti d’Europa;
semplicemente, la sovranità italiana si esercita negli Stati Uniti d’Europa.
Senonché, in questo caso, avremmo non già una sovranità dello Stato italiano,
ma una sovranità sullo Stato italiano da parte di una entità terza.
La sovranità non è come il marchio di una fabbrica di automobili, trasferibile da un capitalista all’altro senza rischi di scoloritura.
È, piuttosto, la quintessenza della identità di una comunità civica di cittadini che si riconoscono in un patrimonio simbolico, tradizionale, linguistico, valoriale.
Uno Stato è uno Stato e, nel proprio territorio, fa e decide ciò che vuole e ciò che crede.
La Svizzera e la Norvegia stanno lì a dimostrarlo, ma non sarebbe neppure necessario scomodare tali esempi
se non ci fosse la falsa analogia in oggetto a inquinare il nostro corretto modo di ragionare.
Quindi, non è affatto vero che la globalizzazione ha reso i singoli Stati impotenti verso le forze del capitale.
Semmai, la globalizzazione rende impotente chi abdica alla propria sovranità sul capitale e sull’economia.
E ciò è ancor più vero laddove la realtà sovranazionale
(la quale de-sovranizza, cioè prosciuga l’autonoma indipendenza di una Nazione)
è qualcosa di analogo alla UE.
Cioè una organizzazione nata non per difendere gli Stati sovrani,
ma piuttosto per renderli impotenti di fronte al libero dispiegarsi delle forze del capitale trans-nazionale.
Da tale pseudo-analogia dobbiamo liberarci se non vogliamo cadere vittime di una “ansia da prestazione”.
Secondo la quale, l’unica logica accettabile nei rapporti tra popoli sarebbe quella del mercato:
dove i bravi esportano a rotta di collo e sono quindi virtuosi; gli altri invece, quelli “scarsi”,
sono obbligati a importare così da indebitarsi e da rischiare il default.
Non dimentichiamoci che proprio la frenesia del capitalismo predatorio
è alla base di fenomeni come il colonialismo e l’imperialismo.