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Ultima modifica:
Questa signora sarebbe da licenziare subito.


"La tua rivoluzione è stata anche la mia, le vie diverse non cancellano le idee,
con malinconia un addio alla compagna Luna".

Queste le parole di un post, quasi subito cancellato, pubblicato da Donatella Di Cesare,
docente dell'Università La Sapienza di Roma, nonché filosofa avvezza alle telecamere televisive.

"Compagna Luna" è la brigatista Barbara Balzerani, morta il 4 marzo a 75 anni.

Parole che hanno colpito particolarmente,
soprattutto per la sua posizione di docente,
che evidenziano un certo indirizzo di pensiero nelle nostre università.
 
"Ma davvero Di Cesare ha fatto questo post (poi cancellato per vigliaccheria)
per ricordare la terrorista rossa che con le Br rapì Moro
e senza mai pentirsi rivendicò l'omicidio di Lando Conti?
Non sono queste le idee che non si cancellano da insegnare alla Sapienza"

"Destano stupore le parole pubblicate sui social, e poi cancellate,
con cui la saggista e docente dell'università La Sapienza di Roma Donatella Di Cesare
ha ricordato la brigatista rossa mai pentita Barbara Balzerani.
È necessaria una profonda riflessione sulla pericolosità di dare risonanza,

nelle università e nelle televisioni, a nostalgici di un tempo oscuro".

"Un tempo in cui si affermavano le idee malsane e rivoluzionarie a colpi di mitra,
con le bombe e coi sequestri di persona finiti in tragedia".

"Dopo il vergognoso post di esaltazione e adulazione rivolto alla brigatista Barbara Balzerani,
l'università La Sapienza effettui un "intervento deciso e immediato nei confronti della professoressa Donatella Di Cesare".



Il problema è che esiste ancora un movimento che si rifà a quella sinistra extraparlamentare violenta
che tanto sangue ha versato in Italia tra gli anni Settanta e Ottanta.
 
Chissà perchè le porcate escono sempre da sinistra.


Le varie associazioni di categoria che difendono
Giovanni Tizian,
Nello Trocchia e
Stefano Vergine,
indagati a Perugia per accesso abusivo e rivelazione di segreto.


La Federazione della Stampa dopo l'inchiesta sui cronisti del quotidiano Domani:

«A pubblicare le notizie i giornalisti non commettono mai un reato
I giornalisti hanno come unico scopo della loro professione
cercare e verificare i fatti e pubblicare notizie che siano veritiere».

Ci associamo, da colleghi, soprattutto perché sappiamo che non è vero.

È velleitario o troppo generico quanto ha detto la segretaria dell'Fnsi Alessandra Costante:

pubblicare notizie, per dei giornalisti, può essere reato eccome.

E questo rischia di dimostrarlo proprio ciò che sta succedendo:

i tre citati rischiano fino a cinque anni di carcere;

ma i giornalisti rischiano di commettere un reato
anche se pubblicano segreti di Stato, o atti segretati,
o se partecipano a un concorso in rivelazione di segreto
che non li veda soltanto nel ruolo di recettori.


Non è che per procurarsi una notizia un cronista possa armarsi di bazooka e fare qualsiasi cosa:
e gli studi legali dei quotidiani potrebbero fornire esempi dettagliati, ma non è questo il punto.

Il punto detto con tono semiserio -
è chiedersi che cosa rimanga del concetto di «segreto»
e della sacralità di non essere «spiati» in uno Stato liberale.
 
Quando il mondo in teoria era peggiore, nel 1997,
alcuni di noi descrissero nel dettaglio due incubi da futuro orwelliano:

l'anagrafe tributaria

e il redditometro.

Ora sono realtà, ci siamo arrivati.

Quando il mondo era peggiore, sembrava molto migliore:

si prendeva l'aereo senza doversi denudare ai controlli,

in treno nessuno telefonava,

nessuno ti intercettava,

non eravamo tutti «tracciabili» come bistecche
attraverso cellulari, conversazioni, telecamere, webcam, email, movimenti fisici o contabili, telepass,
nonché quella navigazione internet da cui possono dedurre i tuoi gusti e orientamenti.

Potevi rinunciare a carte di credito e bancomat,

non fare assegni o bonifici bancari,

girare con mazzettoni di contanti come uno spacciatore,

e tua nonna poteva tenere i soldi sotto il materasso senza finire a Regina Coeli.
 
Resta memorabile un vecchio articolo di Massimo Fini:

«Io il mio denaro ho diritto di metterlo dove mi garba,
di ficcarmelo anche nel c... se così mi piace».

Ai tempi c'erano già spionaggi e dossieraggi come quelli scoperchiati dalla procura di Perugia,
ma paradossalmente non esisteva un concetto di «privacy» o addirittura una «Authority della privacy»
in un'epoca, questa, in cui la riservatezza è diventata una chimera.

In Italia, per spesa e quantità, abbiamo intercettazioni ambientali e telefoniche
come non le aveva neanche la Germania dell'Est.

Poi ci sono gli scontrini con luogo e orario,

il fisco ci spia sui social e fa indagini,

poi ci sono i conti degli hotel o peggio motel,

i ticket autostradali,

gli sms e le email,

anche i «like» che, in concreto, permettono di profilarci secondo gusti e preferenze,

dunque le chat, Skype, Facebook, WhatsApp,

tutte le geolocalizzazioni,

la bolletta con tutte le telefonate,

il resoconto del telepass con le tratte autostradali,

i percorsi del navigatore,

il resoconto degli acquisti con la carta di credito,

telecamere e webcam dappertutto,

addirittura agenzie investigative da tre soldi e microspie acquistabili su internet,

mentre gli studenti non possono più marinare o bigiare la scuola (c'è il registro elettronico)

e il controllo tra coniugi comincia a essere regolamentato anche nei contratti prematrimoniali.
 
Nel 2016 ci fu una querelle tra Fbi e Apple
perché la prima chiedeva alla seconda di sbloccare l'Iphone di un terrorista:

Apple si appellava alla privacy e al timore di creare un precedente nella lotta per salvaguardia dei dati personali.

La soluzione raggelò un po' tutti:

una società di cybersicurezza israeliana riuscì sbloccare il cellulare per conto dell'Fbi,
il che significò anzitutto che la cosa era possibile (la stessa Apple negava di esserne in grado)
e significò che uno Stato può immettersi nelle tue cose al pari di hackers e criminali.

La procura di Perugia e qualche giornalista pseudo indipendente,
stanno facendo solo la parte dei dilettanti, dell'Fbi o degli Assange de noantri.


«L'uomo moderno ha rinunciato a essere felice in cambio di un po' di sicurezza»
disse un certo Sigmund Freud nel 1929.


E non aveva neanche l'Iphone.
 
“Dossieraggio”, ma andando anche un po’ più in là con la fantasia si potrebbe parlare di “spionaggio”.

Questa l’accusa gravissima mossa negli ultimi giorni
in particolare al sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia Antonio Laudati
e al tenente della Guardia di Finanza Pasquale Striano, che avrebbero sfruttato
proprio le banche dati investigative per ottenere notizie riservate e informazioni su centinaia di persone,
politici, vip, uomini dell’imprenditoria e non solo.

Un elenco lunghissimo, si parla di oltre 800 accessi abusivi e di 300 profili “attenzionati”.

Striano, inviava le informazioni raccolte ad altre persone

tra cui un investigatore privato,

un amministratore di condominio

e tre giornalisti del "Domani": Giovanni Tizian, Nello Trocchia e Stefano Vergine.

Striano, Laudati e i tre giornalisti a vario titolo, sono accusati
di falso, accesso abusivo a sistema informatico e abuso d’ufficio
 

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