Mercati del petrolio in fibrillazione
Le quotazioni al record degli ultimi nove mesi sono state smussate dalle parole di Obama, che potrebbe intervenire per evitare il naufragio del governo di Baghdad – Però le difficoltà sono enormi e le riserve irachene di greggio non sono facilmente sostituibili – A parte i rischi politici, la situazione favorisce soprattutto i sauditi.
Per gli importatori di greggio è un bene che i mercati ufficiali siano a poche ore dalla pausa di fine settimana. Servirà infatti un momento di riflessione sulla situazione reale dell’Iraq, sulle ipotesi di intervento americano nell’area, sui probabili sviluppi in tutto il Medio Oriente e sui rischi, attuali e futuri, che incombono sulle forniture di petrolio e sull’andamento dei prezzi.
Le ultime giornate hanno visto consistenti acquisti sia sul Brent negoziato in Europa, sia sul Wti scambiato a New York. I prezzi all’Ice di Londra hanno toccato picchi di 115 dollari al barile, i più alti degli ultimi nove mesi, mentre il West Texas al Nymex si è avvicinato a 107 dollari, cifra mai sorpassata dopo l’inizio del settembre scorso. Guardando alle possibili conseguenze degli scontri in territorio iracheno, viene spontaneo ritenere che i mercati siano allarmati e abbiano ricevuto crescenti ordini d’acquisto, specialmente da Pechino, interessata a creare scorte strategiche di dimensioni sufficienti ad affrontare periodi di crisi (nelle aree di produzione petrolifera) senza bloccare la crescita economica cinese.
Ma quello degli operatori sembra un allarme in qualche modo riluttante: il rincaro è stato di 5-6 dollari in una decina di giorni, non poco, certamente, ma è bastato un commento generico del presidente Obama sul coinvolgimento americano nell’area per assistere a un arretramento delle quotazioni. Queste, è noto, anticipano i tempi, e ogni ribasso, oggi, finisce per indicare che l’opinione dei mercati punta verso una normalizzazione in Medio Oriente, con grandi tensioni, certo, ma con un probabile stallo nei rapporti di forza.
Il sollievo però fatica a farsi strada quando si guardi agli sviluppi sociali, politici ed economici dell’Iraq e dei paesi vicini. Il nodo che sta venendo al pettine in queste ore riguarda l’incauto e prematuro abbandono delle forze americane. Un errore, con il senno di oggi. Che richiama altri tragici sbagli delle precedenti Amministrazioni Usa, dalla conquista di Baghdad nel 2003 (ma con forze insufficienti a garantire il ritorno alla normalità nel paese) da parte di George W. Bush alla mancata conquista nel 1991 da parte di Bush senior, quando si “accontentò” di liberare il Kuwait. E si potrebbe andare ancora indietro nel tempo.
Un intervento americano adesso avrebbe difficoltà persino nel decidere le modalità e gli “amici”. Ovviamente sarebbero gli esponenti del governo in carica. Che tuttavia ha il “difetto” di essere espressione della maggioranza sciita, quindi vicina ai nemici iraniani. Contro Teheran e le sue velleità nucleari è ancora in atto uno scontro a colpi di sanzioni, benché queste siano state recentemente “ammorbidite”. Inoltre pare oggettivamente complicato muoversi senza far danni, quando si è al centro di uno scacchiere dinamico e variegato: c’è l’ovvio coinvolgimento nella crisi siriana, finora trascurata per non inasprire i rapporti politici con Mosca e Pechino; c’è la questione curda, con i peshmerga che stanno difendendo i loro pozzi, ma non lo fanno certamente per favorire Baghdad; c’è la Turchia che guarda ai suoi confini di sud-est; ci sono il regno saudita e gli emirati che temono un asse sciita capace, se organizzato, di dominare anche nelle aree dove la “tranquillità” era garantita da regimi spietati, ma di connotazioni laiche. Quei regimi che Washington ha combattuto, come Saddam Hussein, oppure ha abbandonato al loro destino, come Hosni Mubarak.
In buona sostanza, lasciarsi tranquillizzare oggi, in vista di un nuovo intervento americano, sembra un atteggiamento troppo ottimistico. L’intervento è forse doveroso, ma sui risultati sembra opportuno dubitare. Ammesso che le premesse siano a grandi linee quelle fin qui esposte, occorre guardare ancora con grande attenzione agli effetti sui mercati del greggio. Già da un paio di mesi, prima che la situazione irachena esplodesse, sia le stime dell’Agenzia internazionale dell’Energia, che rappresenta gli interessi dei paesi industrializzati, sia le valutazioni dell’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, mostravano che lo scenario si stava modificando: la domanda di greggio prodotto dal cartello è destinata a salire, proprio mentre diverse zone di estrazione sono in difficoltà.
Iraq a parte, l’offerta risente della mancanza quasi assoluta di merce proveniente dalla Libia e vede calare anche la disponibilità di greggio nigeriano e iraniano. Il successo delle operazioni statunitensi di fracking, la fratturazione idraulica degli scisti rocciosi, ha in parte attenuato, a livello globale, le carenze verificate altrove. Ed ha anche fatto pensare a Washington che l’interesse americano verso il Medio Oriente avrebbe potuto progressivamente attenuarsi, fatti salvi i principi incrollabili della difesa di Israele e della lotta contro Al Qaeda.
Non è proprio così. Intanto, l’Iraq, con 3,3 milioni di barili al giorno estratti il mese scorso, è il secondo produttore Opec dopo l’Arabia saudita e ha il 9% delle riserve mondiali di greggio. Un patrimonio di risorse che non può essere lasciato in balìa di una guerra civile, come sta già accadendo alla Libia e alla Siria. Troppo semplicistico però l’invito del ministro iracheno del petrolio, Abdul Kareem al-Luaibi, che vorrebbe fossero bombardati i territori settentrionali, dove si sta muovendo Al Qaeda.
Sarebbe eccessivo anche confidare sulla produzione saudita, che ha una disponibilità produttiva supplementare poco superiore a 2,5 milioni di barili al giorno, insufficiente a colmare l’eventuale carenza combinata di Libia e Iraq. Quindi a frenare i rincari oggi sono soprattutto una certa apatia dei trasformatori e la consapevolezza che, almeno per il momento, i pozzi nel nord del paese sono in mano curda (ma gli oleodotti sono a rischio) e quelli nel sud intorno a Basrah (Bassora) sono ancora controllati dal Governo centrale. Chi per il momento può fregarsi le mani è Ali al-Naimi, il potente ministro saudita del Petrolio, ben lieto di garantire al proprio paese esportazioni sempre più forti e sempre più remunerative.