La crisi dell'euro non è finita
La strategia europea per superare la crisi dell'euro appare sempre più chiara: accelerare il passo sulla strada del risanamento dei conti pubblici per cercare di scongiurare il pericolo di nuove crisi simili a quella greca e compensare gli effetti negativi sulla crescita delle misure di austerità attraverso il deprezzamento dell'euro. Questa strategia è destinata ad avere il fiato corto per diversi motivi.
In primo luogo il rapido deterioramento delle condizioni finanziarie della Spagna induce a ritenere che il Paese iberico sia oramai l'epicentro della prossima crisi.
In secondo luogo, gli effetti economici positivi del deprezzamento della moneta unica europea (di circa il 15% rispetto al dollaro dall'inizio dell'anno) non stanno riducendo, ma stanno ampliando il divario tra Paesi europei forti e deboli. I dati sulla produzione industriale dello scorso mese di aprile mostrano infatti un aumento dell'attività industriale rispetto al mese precedente in Olanda, Finlandia, Italia e Germania e una contrazione in Spagna, Grecia, Portogallo ed Irlanda. Dunque il ribasso dell'euro non sta dando finora un grande aiuto ai Paesi europei in maggiore difficoltà. Anche per questi motivi l'euro debole non appare in grado di compensare l'effetto recessivo delle «stangate» fiscali nella maggior parte dei Paesi di Eurolandia.
In terzo luogo, l'intera architettura dell'operazione si basa sull'aspettativa che gli Stati Uniti e i Paesi emergenti (soprattutto asiatici) siano in grado e siano anche disposti ad assorbire una quantità supplementare di esportazioni europee. Ciò non è assolutamente certo. La ripresa americana appare più debole delle previsioni e non è garantita l'accondiscendenza di Washington, già alle prese con un crescente disavanzo commerciale che continua a far lievitare il debito estero statunitense. D'altro canto, la capacità di assorbimento dei Paesi emergenti e soprattutto dei Paesi asiatici rischia di diminuire a causa del varo di politiche restrittive tese ad evitare l'inflazione (India) e il formarsi di pericolose bolle speculative (Cina).
In quarto luogo, la politica delle svalutazioni competitive (tipica di una crisi come l'attuale) rischia di accentuare gli squilibri che affliggono l'economia mondiale.
Le discussioni del vertice europeo di questa fine settimana non si sono concentrate su questi temi, ma sul pericolo alle porte costituito dalla Spagna. Le condizioni del Paese iberico sono sempre più critiche nonostante il successo dell'asta dei titoli del Tesoro iberico di martedì scorso. Il metro di misura non è infatti il collocamento delle emissioni dei titoli pubblici, che nell'attuale contesto di crisi di Eurolandia, viene ampiamente pilotato sia dalla Banca centrale europea, sia dalle vecchie banche centrali nazionali (che esistono ancora), sia dai Governi, ma i tassi a cui vengono assorbiti i titoli, il differenziale dei tassi di interesse e le capacità di accesso ai mercati del sistema bancario. Ebbene, a questo riguardo il responso è chiaro: martedì scorso Madrid è riuscita a collocare 5,2 miliardi di euro di obbligazioni statali, ma è stata costretta a pagare tre quarti di punto più dell'ultima emissione; ieri il differenziale tra i titoli di Stato tedeschi a 10 anni e gli equivalenti spagnoli ha stabilito il primato storico dalla nascita dell'euro, raggiungendo i 223 punti; e, infine, come ha dichiarato lunedì scorso il presidente di BBVA, la seconda banca spagnola, è chiuso l'accesso al mercato per gli istituti spagnoli. Dato che per le banche spagnole è sempre più difficile e soprattutto più oneroso rifinanziarsi anche a breve sul mercato interbancario, la Banca centrale europea è diventata la principale (e oggi forse l'unica) fonte di finanziamenti per il sistema bancario spagnolo: il mese scorso gli istituti iberici hanno preso a prestito dalla Bce 85,6 miliardi di euro, quelli di questo mese, che non sono ancora noti, sono sicuramente destinati ad essere ben maggiori.
La situazione appare talmente difficile che secondo la stampa specializzata si starebbe addirittura studiando l'ipotesi (smentita sia da Madrid sia da Bruxelles) della creazione di una linea di credito privilegiata da usare a seconda delle necessità. L'ipotesi appare comunque avere un suo fondamento almeno per due motivi. Il primo è che il Fondo salva-stati creato dall'Unione Europea, dotato di 440 miliardi di euro, è in grado di affrontare crisi di Paesi con economie di dimensioni simili a quelle del Portogallo, ma non ha sufficienti risorse per affrontare la crisi di un Paese come la Spagna, il cui PIL si aggira attorno ai 1'000 miliardi di euro. Inoltre, la «capitolazione» di Madrid, ossia il ricorso al Fondo da parte della Spagna, produrrebbe un immediato effetto domino destinato ad investire l'Italia. Infatti il Fondo salva-stati europeo è stato concepito per aiutare Paesi piccoli, come la Grecia e il Portogallo, ma soprattutto per rassicurare i mercati e quindi per non essere usato dai grandi Paesi europei. Basti pensare che l'Italia garantisce 81 miliardi di euro dei 440 miliardi: se dovesse ricorrere ai prestiti del Fondo europeo, la dotazione di capitale di quest'ultimo si ridurrebbe immediatamente dello stesso ammontare. Il secondo motivo è che la causa della crisi spagnola non è il debito pubblico, che è inferiore al 70% del PIL, ma il deficit pubblico annuo, che supera l'11%, il debito privato (famiglie ed imprese) e soprattutto lo stato molto precario del sistema bancario gravato da una grande quantità di crediti che ora diventa inesigibile a causa dello scoppio della bolla formatasi nel settore immobiliare. Ora se è probabile che lo Stato spagnolo, che già sta erogando prestiti alle banche, sia chiamato ad accollarsi le spese del salvataggio del sistema bancario, è inverosimile che possa assumersi anche il debito di famiglie ed imprese con una disoccupazione che è già al 20% e con un'economia destinatas a ricadere in recessione.
La crisi della Spagna e soprattutto i provvedimenti necessari per evitare che il Paese iberico faccia la fine della Grecia, aprendo scenari molto pericolosi, sono state al centro delle discussioni del vertice europeo.
Alfonso Tuor
(Ticinonews.ch)