IL REPARTO PSICHIATRICO MI HA SCELTO COME TESTIMONIAL

Il Dipartimento della Protezione civile scrive in tweet:
«Stiamo seguendo attentamente la situazione dopo i casi di contagio a Codogno
in stretta sinergia con la task force del ministero della Salute e Regione Lombardia.
L’obiettivo è mettere in campo tutte le misure necessarie per circoscrivere il rischio sanitario».
 
Aggiornamento.
Cose da non credere.
Domenica l'uomo - che non stava bene - si era recato al pronto soccorso.
Questi l'hanno mandato a casa dicendogli di prendere l'antibiotico.
il 19 stava malissimo ed è tornato al pronto soccorso.
Calcolate gli il tizio gioca a calcetto e fa marce podistiche.
 
La moglie del 38enne ricoverato a Codogno per Coronavirus, anche lei ricoverata all'ospedale Sacco
perché contagiata dal Covid-19, è incinta all'ottavo mese.

La donna, V.S., è residente a Castiglione d'Adda lavora in un punto vendita della catena L'Erbolario a Casalpusterlengo, sempre nel Lodigiano,
e fa anche l'insegnante di educazione fisica in un liceo scientifico di Codogno

. Da tempo però non frequentava l'istituto per via della gravidanza.

La donna è un appassionata podista, così come il marito.

All'interno dell'erboristeria aiuta la madre, che sarebbe la titolare del punto vendita.

Il marito era stato a cena con un amico tornato dalla Cina

Il marito della 38enne si è presentato all'ospedale di Codogno una prima volta il 16 febbraio con febbre,
ed è poi tornato il 19 febbraio in ospedale con una crisi respiratoria.

I primi esami hanno confermato che era stato contagiato dal Coronavirus.

La donna è in isolamento all'ospedale Sacco di Milano

Mentre il marito della donna è ricoverato nel reparto di Terapia intensiva dell'ospedale di Codogno,
dove nel frattempo alcuni reparti sono stati chiusi, la moglie e uno stretto conoscente del 38enne,
anche lui contagiato dal Covid-19, sono stati ricoverati in isolamento all'ospedale Sacco di Milano, centro di riferimento per il Coronavirus in Lombardia.
 
Vi invito a collegarVi al Corriere e guardare la diretta dall'ospedale di Codogno.
........escono con la mascherina a mettere i cartelli "no entry".
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In Italiano ????? Perchè mi risulta che Codogno sia in Italia.
 
Burioni non è simpatico e sui vaccini si è espresso come un ottuso massimalista,
ma sul Covid-19 ha pienamente ragione e male ha fatto il governo piddino a non ascoltarlo.

Bisognava mettere tutti coloro che tornavano dalla Cina in quarantena, senza se e senza ma.

Le ultime notizie mi portano a ripetere per l’ennesima volta l’unica cosa importante.
Chi torna dalla Cina deve stare in quarantena. Senza eccezioni.
Spero che i politici lo capiscano perché le conseguenze di un errore sarebbero irreparabili.

— Roberto Burioni (@RobertoBurioni) February 21, 2020

Poche ore prima che si diffondesse la notuzia dei primi casi a Codogno si era espresso in modo simile, se non più duro

Dal primo giorno ho sostenuto che la pericolosità di questo virus sta nella contagiosità degli asintomatici.
Dal primo giorno alcuni mi hanno dato contro. Dal secondo giorno i fatti hanno dimostrato che avevo (purtroppo) ragione. Medical Facts on Twitter

— Roberto Burioni (@RobertoBurioni) February 20, 2020

Burioni ha ragione: bisogna mettere in quarantena TUTTI I VIAGGIATORI che siano stati fuori dalla UE ed in zone di contagio ( Cina, Corea, Vietnam).
Le mezze misure, il buonismo, il “Ma intanto ce la caviamo” porterà solo malattia.
Aggiungiamo anche l’Iran, dato che è impossibile che i soli due casi siano stati mortali: è evidente che li non c’è un controllo e che il diffondersi dell’epidemia è senza controlli.

Poi tanta , tanta, tanta informazione.

O metodi Draconiani ora, o piangeremo in seguito.
 
La riforma costituzionale oggetto del referendum confermativo è stata presentata come naturale sviluppo
di quella serie di progetti susseguitesi nel tempo volti alla riduzione del numero dei parlamentari,
al fine di snellire l’attività del Parlamento eliminando le vischiosità di assemblee ritenute eccessivamente pletoriche.

Una finalità di semplificazione cui per altro si è ora accompagnato da parte di molti dei sostenitori della riforma un forte richiamo
circa i risparmi economici in tal modo ottenuti, con il venire meno di una parte significativa dei trattamenti economici dei parlamentari.

Al netto di questi pretesi risparmi, comunque non in grado da giustificare di per sé la riforma va tuttavia osservato che i progetti di riduzione del numero dei parlamentari
formulati in passato si accompagnavano ad una serie di interventi volti ad assicurare un adeguato inserimento della riduzione in più ampi interventi,
caratterizzati anche da una diversificazione dei compiti affidati alle due camere e da una nuova articolazione dei rapporti tra Stato centrale e regioni.

L’attuale riforma nulla in tal senso ha previsto.

Non solo: nel frattempo sono in corso proposte di revisione costituzionale che vanno tra l’altro ad incidere anche sulla riduzione dell’età dell’elettorato attivo e passivo al Senato,
prospettando un’accentuazione degli aspetti negativi del doppione di funzioni delle due Camere, di guisa che, ove condotte in porto tali proposte,
si porrebbe di nuovo la questione di una riforma del sistema bicamerale e quindi di una ulteriore rivisitazione della tematica del numero dei parlamentari.

Il fatto è che quella in esame è una riforma la quale andrebbe tutto al più impostata alla fine di un complessivo processo di riforma costituzionale,
mentre così isolata investe direttamente nodi centrali del nostro sistema istituzionale, senza per altro dare adeguata sistemazione agli effetti che su tali nodi essa ha inevitabilmente.

In primo luogo infatti la riduzione dei parlamentari determina un’alterazione significativa degli equilibri interni al corpo elettorale in sede di elezione del capo dello Stato,
poiché se vengono ridotti a 600 gli oltre 900 parlamentari finora facenti parte del corpo, i rappresentanti delle regioni assumono un peso non indifferente atteso che superano i 50 componenti.

Ma fatto ancor più grave è la mancata valutazione degli effetti che la riforma assume sugli equilibri territoriali che il costituente ha voluto realizzare con l’introduzione del sistema regionale.

In proposito va ricordato che il testo della Costituzione del 1948 istituiva un rapporto diretto tra la popolazione residente e i suoi rappresentanti in Parlamento
( un deputato ogni 80.000 elettori ed un senatore ogni 200.000) di modo che i componenti di Camera e Senato variavano in base all’incremento della popolazione.

Da un preciso rapporto numerico tra elettori e propri rappresentanti anche l’evidenziazione di una forte accentuazione del valore di tale rappresentanza con riferimento al territorio di elezione.

Questo raccordo con il territorio assumeva sin dal principio una particolare declinazione venendosi a stabilire che ( a parte la Valle D’Aosta)
ogni regione avesse almeno 6 senatori: in proposito militavano evidenti ragioni connessi ai forti squilibri territoriali presenti allora ( e ancor oggi )
nel nostro Paese e dalla connessa esigenza di dare uno spazio più consistente alle regioni più piccole
potenzialmente svantaggiate nei lavori del Senato da interessi coalizzati di regioni numericamente più rilevanti.

L’ impostazione fu confermata dalla successiva riforma del 1963 che fissando definitivamente in 630 il numero dei deputati e in 315 quello dei senatori( a parte quelli di nomina presidenziale)
ha non solo istituzionalizzato lo stretto rapporto anche numerico tra elettori, territori ed eletti, ma ha su questa linea addirittura portato a 7 il numero minimo dei senatori per ogni regione
(a parte la Valle D’Aosta e il Molise) donde la possibilità concessa alle regioni più piccole , sulla base del regolamento del Senato,
di arrivare a costituire almeno fino a 2 gruppi parlamentari, con i connessi poteri previsti dagli strumenti regolamentari per i Gruppi e tali da incidere sullo stesso svolgimento dei lavori parlamentari.

Con l’attuale riforma costituzionale si riduce invece fortemente la posizione delle regioni più piccole
per le quali il numero minimo di senatori (3) previsto finisce con il rendere del tutto minimale il loro peso.

Quanto sopra rilevato in ordine ai problemi irrisolti posti dalla riduzione del numero dei parlamentari senza una previa valutazione del loro impatto sistemico,
consente di arrivare a conclusioni assai drastiche circa la necessità di non confermare la riforma.

Conclusioni che si legano al fatto che con la riforma si incide dunque profondamente – come accennato – su uno dei principi portanti del nostro sistema costituzionale:
quello dello stretto rapporto esistente tra elettori e i territori in cui essi risiedono con i parlamentari da eleggere.

Lo attesta non solo l’originaria previsione della Costituzione del 48 laddove fissava un preciso rapporto quantitativo tra elettori ed eletti sia alla Camera sia al Senato.

Previsione – lo si ribadisce – del resto coerentemente mantenuta dalla riforma del 1963 che ha solo stabilizzato il numero dei componenti del Parlamento
stante anche un sostanziale assestamento della curva di accrescimento demografica, mantenendo in pratica immutato il rapporto numerico tra eletti ed elettori.

Ma lo attesta soprattutto la situazione determinata dalla riduzione dei parlamentari recata dalla riforma del 2019.

Infatti non solo ma si è inciso ancor più profondamente sull’equilibrio tra regioni più grandi e più piccole nell’ambito della composizione del Senato;
ma si è incisa ancor più profondamente nel rapporto tra i collegi in cui va ripartito il corpo elettorale.
E ciò viene altresì in particolare evidenza per quanto concerne l’elezione per la Camera dei Deputati,
dove l’inevitabile ampliamento delle circoscrizioni in cui si collocano i collegi, resi forzatamente più ampi in conseguenza della riforma,
finirà con il privare interi territori e gli elettori relativi dalla rappresentanza parlamentare.

E che non si tratti di una mera ipotesi, emerge dalla legge n. 51 del 2019, che per consentire un pronto adeguamento del sistema elettorale alla riduzione del numero di parlamentari,
ha riprodotto la previsione della possibilità di scostamenti del 20% in più o in meno del numero di elettori dei singoli collegi.

Questa disposizione già prevista nella legislazione precedente, era comunque attenuata dal numero dei parlamentari previsto all’epoca.

Nella prospettiva della nuova riforma la disposizione si appalesa oramai tale da incidere profondamente su uno dei pilastri della democrazia:
la sostanziale parità del voto degli elettori in ordine all’elezione dei propri rappresentanti e l’esigenza che vi siano una adeguata rappresentanza dei territori di residenza degli elettori.

In tal modo appare chiara la violazione del disposto dell’art. 139 della Costituzione qui come più volte precisato dalla Corte Costituzionale,
l’affermazione che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale sta ad indicare che non possono essere oggetto di revisione i principi fondamentali della Costituzione.

E tra questi rientra certamente il principio della parità fra tutti gli elettori in ordine alle elezioni e il principio della necessaria rappresentatività nei territori.
 
Le ultime 24 ore hanno visto un’esplosione di palle comunicative talmente grande che, ormai,
penso abbiano superato la dimensione del nostro pianeta.


Non si sono mai sentite così tante fandonie quanto negli ultimi giorni.

Ieri sera si è iniziato con lo spettacolo di Matteo Renzi che, forte di quel 4% che gli assegnano i sondaggi più amichevoli,
minacciava la sfiducia al ministro Bonafede se non avesse ritirato la normativa sulla prescrizione.

Una vera e propria palla colossale, dato che persino i sassi sono conoscenza dell’allergia estrema di ogni partito di questa maggioranza alle elezioni.

Per rubare qualche posticino in più nelle prossime nomine governative Renzi si è ridotto a darci uno spettacolo trito e ritrito a Porta a Porta,
ma ormai gli italiani non gli credono più: solo il 13% lo ritiene sincero, e già è una percentuale molto ottimista.




Non bastando il Renzi nazionale, oggi si è unito pure Conte, con l’ennesimo annuncio della revoca ad Autostrade per l’Italia belle concessioni autostradali.

Naturalmente la revoca è stata subito corretta dalla supplica fatta ad autostrade di “Fare una controproposta “, proprio per lanciare l’ancora di salvezza ad Aspi.

Anche i sassi sanno benissimo che, nonostante tutti i proclami, questo governo non ha nessuna intenzione di cancellare le concessioni autostradali.
Come ben spiegato all’interno del pezzo, al limite le concessioni stesse verrebbero temporaneamente affidate ad Anas, per essere poi ancora cedute ad una società privata con una gara.
A questo punto il governo avrebbe preso in giro gli italiani in due modi:

  • Continuando a far finta di non capire che i Monopoli naturali, cioè le infrastrutture come autostrade, acquedotti, reti elettriche, reti telefoniche,
  • che operano in una situazione di monopolio oggettivo, non possono che essere gestite dallo Stato, perché ogni concessionario privato
  • non farà altro che aggiungere un margine in proprio ai costi di gestione della rete stessa. Il privato ed il mercato svolgono la propria funzione
  • solo quando c’è concorrenza, e dato che non possono esserci due autostrade parallele a farsi concorrenza,
  • queste Infrastrutture devono essere gestite solo ed esclusivamente dallo Stato con criteri pubblicistici.

  • Continuare a non capirlo è continuare a prendere in giro gli italiani.

  • Perché vantarsi di aver cambiato la la legge per togliere una concessione autostradale, per quanto questo fosse moralmente legittimo,
  • non farà che peggiorare la situazione contrattuale dello Stato nei confronti di un privato. A questo punto avrebbe più senso la gestione pubblica,
  • piuttosto che un affidamento oneroso per il consumatore ed il cittadino, ma neppure redditizia per lo stato.
Tra l’altro appare strano che da un lato si vogliano togliere le concessioni, poi dall’altro si conceda alla stessa Società Autostrade,
grazie ad una iniziativa del PD e di Italia viva, una gestione agevolata degli appalti, a favore di soluzioni interne, come si può bene leggere da questo articolo La Verità

pic.twitter.com/AJ6zDaDI7a

— fran II (@frances65241786) February 20, 2020

Ora capiamo bene che il governo giallorosso, non la Francia, non veda l’ora di cedere a Vinci la gestione delle autostrade italiane.

Però almeno agisca con un po’ di ritegno e lo dica chiaramente.
 
Prepariamoci.
Perchè dopo Grecia, Portogallo, Spagna, i prossimi siamo noi.

Paul Krugman, il noto Premio Nobel per l’economia americano, durante una sua vacanza spagnola con due semplici tweet
ci rivela la triste verità dietro il cosiddetto ” miracolo spagnolo”, cioè la crescita della Spagna con l’introduzione dell’euro.

Il caso spagnolo viene spesso citato come un caso di crescita virtuosa anche nell’euro, contrapposto all’Italia, vista invece come la pecora nera della moneta unica.

Ecco il primo tweet dell’economista americano

I'm still in Madrid, and people are asking me about Spain's economic recovery and whether it validates the euro.
So here's what you need to know. Spain has indeed been clawing its way back via massive "internal devaluation" — lower inflation than its partners 1/ pic.twitter.com/QRT1pkVFGv

— Paul Krugman (@paulkrugman) February 18, 2020

Il grafico mostra come la crescita della Spagna sia stata frutto di una inflazione molto minore rispetto a quella della Germania.
Quindi i minori prezzi spagnoli, all’interno dell’Unione monetaria, hanno permesso una crescita dell’economia di questo paese
ed una ripresa dopo la crisi del 2009. La Spagna ha spiazzato gli altri paesi.

In un secondo tweet però Krugman ci spiega come questo risultato sia stato raggiunto e chi mi abbia pagato il prezzo.

How did it achieve this internal devaluation? Through years of intense economic suffering. Even now the unemployment rate is far above the pre-crisis level 2/ pic.twitter.com/s26Z9lilC4

— Paul Krugman (@paulkrugman) February 18, 2020

La bassa inflazione, come mostra questo secondo grafico, è stata ottenuta attraverso una esplosione della disoccupazione
che ha permesso il contenimento della dinamica salariale. A pagare il costo della maggiore competitività sono stati i lavoratori spagnoli
attraverso una disoccupazione che, ancora oggi, è superiore al momento per crisi.
Seguire le politiche europee può permettere una ripresa dell’economia, ma solo a scapito dei salari e dei laboratori, che ne pagano il prezzo tramite la disoccupazione.


Ed ecco l’ovvia conclusione

If this is a success story, it's a Pyrrhic one; a few more successes like this and Spain would be a wasteland 3/

— Paul Krugman (@paulkrugman) February 18, 2020

Come giustamente nota Krugman la ripresa della Spagna è una vittoria di Pirro.

Il prodotto interno lordo sarà aumentato, ma questo è successo a capito delle classi sociali più deboli.

Si è scambiato l’arricchimento di pochi con la devastazione dei molti.
 

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