Eccezionale articolo di Onado sul Sole.
Più soldi in cassa, ma non di Stato.
Che conferma la mia tesi.
Parmalat un pretesto.
Se qualcuno lo può postare.
UN FORTE SEGNALE
di Marco Onado
Il maxiaumento di capitale deciso da Intesa è un segnale forte, ma apre anche scenari da valutare. È bene che la ricapitalizzazione prenda l'avvio, perché su questo tema troppe banche avevano finora adottato la tecnica dei mariti infedeli: negare tutto, anche contro l'evidenza.
In questo caso, escludendo la necessità di aumenti di capitale, dato che le banche italiane erano state colpite meno duramente delle altre dalla crisi. Il che è indubbiamente vero, ma stende un velo fin troppo pietoso sul fatto che i pur blandi stress test di luglio scorso avevano messo le banche italiane (e, si badi, Banca Intesa e UniCredit meno delle altre) in una zona non troppo lontana da quella critica.
È un bene per le banche, ma prima di tutto per l'economia italiana perché la crisi finanziaria non ha esaurito i suoi effetti negativi; anzi, in tutta Europa è sempre più forte il rischio che un sistema bancario senza capitale sia costretto a chiudere drasticamente i rubinetti del credito. È uno scenario descritto negli anni 30 da Irving Fisher (la cosiddetta "deflazione da debiti") e che senza risalire tanto lontano, abbiamo visto recentemente in Paesi sviluppati: la Scandinavia all'inizio degli anni 90 e il Giappone per oltre un decennio. E in entrambi i casi il principale problema era un sistema bancario troppo povero di capitale e troppo intento a leccarsi le ferite della precedente bolla speculativa per preoccuparsi del sistema produttivo.
Prima però di affermare che sugli schermi italiani si sta proiettando la prima sequenza di un "happy end" degno dei film di Frank Capra, bisogna fare almeno due considerazioni, una sullo scenario interno e l'altra su quello internazionale. Il problema tutto italiano riguarda chi sottoscriverà le azioni di nuova emissione. Le fondazioni hanno già dichiarato di far la loro parte, ma Intesa Sanpaolo ha ben il 57% del capitale votante sul mercato, cui vanno aggiunte le quote dei soci che non sottoscriveranno l'aumento, cioè almeno un altro 10 per cento. È dunque molto probabile che una quota rilevante di azioni verrà sottoscritta dalla Cassa depositi e prestiti cui, con mirabile e non casuale tempismo, è stato consentito d'investire in "aziende strategiche".
In una situazione d'emergenza come quella attuale, non ci si deve meravigliare che si debba ricorrere a capitali pubblici. Ma le modalità con cui ciò avviene destano gravi interrogativi. L'assetto proprietario delle grandi banche italiane è già dominato da fondazioni che hanno avuto grandi meriti, ma che non possono essere considerate come investitori istituzionali perché hanno una governance autoreferenziale e troppo vicina al potere politico locale.
L'intervento della Cassa, in cui è forte il peso delle fondazioni, rischia di affidare il controllo delle principali banche a una ragnatela di relazioni, sotto la regia di un ministero dell'Economia che diventerebbe il vero centro di gravità del sistema finanziario italiano.
L'intreccio risulterebbe ancora più complesso e inquietante se le fondazioni s'indebitassero (come qualcuno già ipotizza) per acquistare le azioni di nuova emissione, in un gioco degli specchi da far girare la testa: le banche finanzierebbero le fondazioni per consentire loro di acquistare azioni di altre banche. Non c'è da stupirsi più che tanto: molto spesso da noi si scrive "operazione di sistema" e si legge "scambio incrociato di favori". A buon rendere, s'intende.
Il secondo problema fondamentale è quello internazionale, perché su tutte le banche europee pende la spada di Damocle del debito di Grecia, Portogallo e Irlanda. Varie ricerche dimostrano che quanto più peggiorano le prospettive dei Paesi periferici, tanto più aumenta il costo della raccolta delle banche sul mercato e ciò pregiudica i conti economici del futuro, dunque la remunerazione dei capitali da raccogliere. È questo il meccanismo di trasmissione fra la traballante situazione del debito sovrano e la non meno incerta situazione delle banche europee.
Del resto, se Grecia e Portogallo pagano sul proprio debito spread superiori ai 700-800 punti base, è evidente che anche le banche di quei Paesi rinnovano il loro debito in scadenza a condizioni che rendono impossibile l'equilibrio economico futuro. Ma anche i Paesi meno esposti, a cominciare dall'Italia, pagano spread compresi fra 50 e 100 punti base che intaccano la redditività futura. Questo differenziale non sarà colmato solo per effetto degli aumenti di capitale annunciati, per quanto cospicui.
Quando su giornali autorevoli come Der Spiegel o Financial Times (edizione tedesca, quando si dice la combinazione) si parla apertamente di ristrutturazione del debito greco, è evidente che gli annunci di Bruxelles sulla politica europea di sostegno ai Paesi periferici non sono più credibili. È giunto il momento di prendere il toro per le corna e valutare realisticamente quali sono le prospettive di rientro del debito dei Paesi traballanti e quindi qual è il valore del debito sovrano in circolazione e quali le perdite che derivano per le banche europee, in particolare le più esposte come quelle inglesi, spagnole e tedesche.
Senza questo, il mercato continuerà a far pagare molto cara la propria incertezza non solo ai Paesi emittenti ma anche alle banche creditrici, senza distinguere adeguatamente fra quelle più esposte e quelle meno, penalizzando così le seconde, fra cui ci sono proprio le banche italiane. L'incertezza domina ancora i mercati e in mancanza di una chiara presa di posizione politica a livello europeo, sia gli aumenti di capitale sia gli stress test di giugno si riveleranno per quello che realmente sono: condizioni necessarie, sì, ma non sufficienti.