A cominciare da Mario Draghi, tutti i commenti sul Recovery Fund concordano: il debito pubblico sarà sostenibile solo se saremo capaci di utilizzare quelle risorse per promuovere la crescita. Questo significa passare dalla logica dei sussidi a sostegno del reddito di famiglie e imprese colpite dal Covid a quello degli investimenti produttivi. E rende necessaria una strategia che identifichi con chiarezza priorità e obiettivi, per indirizzarli dove hanno il maggior impatto sul reddito, tenuto anche conto del costo opportunità (le risorse non sono infinite e, se vengono utilizzate per un progetto, un altro viene necessariamente sacrificato).
Infine, non è sufficiente avere la disponibilità delle risorse finanziarie: per realizzare un massiccio programma di investimenti ci vogliono grandi capacità professionali, tecniche, e organizzative. E questo non è mai stato il punto forte della Pubblica Amministrazione, ma neanche dei Commissari straordinari e strutture parallele a cui il Governo vuole fare ricorso.
Il Pil misura il valore di mercato di quanto viene prodotto. In presenza di capacità inutilizzata come oggi, la spesa pubblica ha un impatto immediato e automatico sulla “crescita” perché genera una maggiore domanda che incrementa la produzione di beni e servizi.
Ma perché il Pil cresca stabilmente bisogna che nel tempo aumenti la produttività, ovvero il valore aggiunto prodotto da ogni addetto. Alla lunga, quindi, la produttività di un Paese dipende dalla capacità delle imprese di crescere dimensionalmente, aumentare il valore dei beni e servizi che producono, nonché di crearne di nuove nei settori trainanti. Proprio per questa ragione la Commissione Europea ha vincolato l’utilizzo dei fondi del Next Generation EU agli investimenti per la transizione all’economia digitale e green.
Puntare però soltanto sull’intervento pubblico per tornare a crescere in modo duraturo è illusorio. Il ruolo e il sostegno finanziario dello Stato è essenziale, ma c’è bisogno del privato.
A cosa servono i privati
Se anche tutte le condizioni per un utilizzo efficace delle risorse del Recovery Fund, come ho indicato all’inizio, fossero soddisfatte, e francamente ne dubito, affinché l’Italia torni a crescere in modo duraturo e recuperi i ritardi accumulati negli anni è indispensabile che le imprese private, quelle esistenti come quelle di nuova costituzione, siano capaci di espandersi sfruttando le cosiddette disruptive technologies (DT), ovvero quelle tecnologie che alterano il modo in cui i consumatori, le imprese stesse e la pubblica amministrazione operano, agiscono e interagiscono tra di loro: l’ecommerce, il Gps, i pagamenti digitali, lo streaming o le videocall sono solo alcuni esempio di tecnologie che hanno cambiato profondamente abitudini e comportamenti nella vita di tutti i giorni.
Ma le DT sono molto più pervasive di quanto il cittadino si renda conto: come le tecnologie per i sistemi sanitari (healthtech), il sistema finanziario (fintech), l’ambiente (greentech), la genetica (biotech), la trasformazione dei processi produttivi (combinando stampanti 3D, 5G e robotica), o l’internet of things, ovvero la messa in rete di oggetti per farli diventare “intelligenti”, dai pc ai sistemi di sicurezza, dai termostati ai contatori dell’elettricità.
Le DT dimostrano che, per lo sviluppo economico, più dell’innovazione tecnologica in sé, conta il suo utilizzo. Un paio di esempi.
Netflix e la produttività
Non serve che lo Stato dia un pc, banda larga e un cellulare 5G a ogni dipendente pubblico per migliorare scuola, sanità ed efficienza dei servizi, se prima non si riformano processi organizzativi e procedure, si fa formazione e si sviluppano applicativi funzionali e user friendly. E la fibra in casa di tutti gli italiani non aumenta la produttività del Paese se poi viene utilizzata per guardare più facilmente in streaming la serie tv su Netflix.
Per finanziare la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo non si deve fare affidamento soltanto sui soldi pubblici perché c’è abbondanza di capitali privati nel mondo alla ricerca di investimenti in imprese all’avanguardia nell’adozione di DT, che potrebbero diventare i colossi imprenditoriali di domani.
Purtroppo, le cattive notizie sulla nostra capacità di tornare a crescere con vigore nel post Covid non si esauriscono con le polemiche sulle inutili task force del Governo Conte, ma riguardano anche la scarsa capacità di innovare e investire del privato.
Una recente ricerca, ripresa dal Financial Times, sul paese di origine e le modalità di uscita del venture capital delle imprese europee in settori caratterizzati da DT nel corso del 2020, con una valorizzazione superiore al miliardo, mostra come Svezia e UK abbiano fatto la parte del leone con il 40 per cento delle imprese, seguono Germania e Olanda ognuna con il 13 per cento, e poi Finlandia e Danimarca alla pari col 7 per cento; il rimanente 18 per cento è distribuito tra Lussemburgo, Austria, Polonia, Francia, Irlanda, Turchia e Spagna. Ma non c’è traccia di imprese italiane. Ancora più interessante, o preoccupante per noi, l’origine dei capitali che hanno investito in queste imprese.
Pur essendo imprese europee, per il 38 per cento gli investitori sono arrivati tramite la quotazione in Borsa negli Usa, rispetto al 36 per cento raccolto tramite le Borse Europee. E di quelle acquisite tramite trattativa privata, la stragrande maggioranza degli acquirenti sono stati cinesi e americani.
E’ solo una indicazione, ma significativa, della latitanza del settore privato nella rivoluzione tecnologica del Paese. La responsabilità è certamente di una classe imprenditoriale che troppo spesso ha paura di crescere e guarda con diffidenza ai mercati finanziari per non mettere a repentaglio il controllo; e che preferisce piuttosto difendere la propria nicchia in settori tradizionali, e prosperarvi. A cui si aggiungono il nanismo del nostro settore dei servizi; la scarsa propensione del risparmio nazionale, privato e istituzionale, a investire nel capitale di rischio, continuando a prediligere la rendita da cedole, nonostante sia falcidiata dai rendimenti risibili e dai costi di gestione esorbitanti; e il monopolio delle banche nell’intermediazione finanziaria, che hanno nella massimizzazione delle commissioni e la minimizzazione del rischio degli attivi il loro modello business.
Ma il problema sta anche nel dilagante dirigismo che vede nello Stato, nelle aziende a partecipazione pubblica e nell’onnipresente Cassa Depositi e Prestiti l’unica strada per ritrovare la crescita. E che demonizza globalizzazione, mercati finanziari e capitale straniero quando invece, come dimostra la ricerca menzionata sopra, sono i capitali e le Borse straniere i primi finanziatori dell’innovazione tecnologica in Europa.
Falso poi che mercato, innovazione e capitali stranieri siano antitetici al welfare e alla solidarietà: basterebbe guardare ai paesi scandinavi per capire che forse è vero il contrario.
DOMANI/Penati