21 giu 2013 20:43 Sale la tensione tra Berlino e Ankara
La repressione delle proteste mette in pericolo le trattive di adesione all'UE
ANKARA - Brusca impennata di tensione fra Berlino e Ankara all'indomani della repressione della protesta dei giovani, che ora rischia di far deragliare la prevista ripresa delle trattative di adesione fra Turchia e UE. Berlino oggi ha convocato l'ambasciatore turco. Per ritorsione Ankara ha convocato quello tedesco.
Il governo di Berlino non ha gradito le reazioni muscolari di Erdogan alle condanne piovute dall'Europa, e le parole del ministro degli affari europei Egemen Bagis contro Angela Merkel, che lunedi si era detta "scioccata" dal trattamento riservato ai giovani di Gezi Park. Per motivi "tecnici", che però non ingannano nessuno, Berlino ora chiede il rinvio dell'apertura di un nuovo capitolo negoziale fra Ue e Turchia, il primo dopo tre anni di gelo, prevista per giovedì prossimo.
Bagis ha reagito accusando Merkel di fini elettorali, e quasi minacciandola: "chi si occupa della Turchia finisce male", come l'ex-presidente francese Nicolas Sarkozy, sconfitto alle presidenziali da Francois Hollande, ha avvertito.
aggiungo articolo del 14lug
Se l’economia affossa Erdogan
A rischio il modello turco e la fama di riformista del premier
Anche in Italia si rischiava di essere seriamente redarguiti dalla lobby filo-turca, affascinata dal nuovo sultano del Bosforo e dai buoni affari, che promette sempre un grande impegno per l’ingresso di Ankara nell’Unione, un club un po’ farisaico che non la vuole ma non ha mai il coraggio di dirlo.
Altro che "mamma li turchi!", con Erdogan saremmo persino andati in guerra fiancheggiando un’opposizione siriana eterogenea, impopolare persino in Turchia, e travolta da un feroce conflitto interno con al Qaida.
L’alfiere della sua politica estera, il ministro Ahmet Davetoglu, autore di un manuale di geopolitica imbevuto di mistica pan-turca, dopo aver enunciato lo slogan «zero problemi con i vicini», ha seminato più gineprai che soluzioni. Non solo Ankara è coinvolta in un conflitto nel cuore del Medio Oriente, ma ora si trova allineata con Teheran nella dura condanna del colpo di stato al Cairo: proprio quella Turchia già ossessionata dalla cospirazione sciita di ayatollah ed Hezbollah in Siria.
Le teorie del complotto però non funzionano sui mercati. Dopo piazza Taksim e la crisi finanziaria, le accuse di Erdogan alla «lobby dei tassi di interesse» sono diventate il bersaglio delle ironie del Financial Times e del Wall Street Journal.
Per meglio argomentare la tesi della cospirazione internazionale, sempre più di moda dopo il golpe antiMorsi, Erdogan ha appena assunto come consigliere l’azzimato anchorman Yigit Bulut, il quale sostiene che «le potenze straniere stanno cercando di uccidere il primo ministro con la telecinesi». Siamo dunque arrivati al paranormale, sintomo forse più preoccupante e meno gestibile del fondamentalismo religioso e dei divieti sull’alcol.
Il primo ministro, un autentico self made man, è stato assai abile nella sua ascesa, come sindaco di Istanbul e poi come organizzatore di un partito islamico moderato, l’Akp, capace di attirare non solo gli elettori religiosi, prima esclusi dal sistema, ma anche il centro borghese, le nuove classi imprenditoriali anatoliche, intercettando il cambiamento sociale sfuggito alle élite militari e kemaliste. Ha promosso la liberalizzazione economica e quella politica rimuovendo gli elementi antidemocratici dell’esercito e della magistratura, i due pilastri del "deep state", lo stato profondo.
Ma dopo tre indiscutibili vittorie elettorali si è fatto prendere la mano per imboccare uno stile autoritario, con l’aspirazione nel 2014 di dirigere una repubblica presidenziale. Usando il pugno di ferro della repressione .