VI RICORDATE QUANDO SI STARNUTIVA E TI DICEVANO "SALUTE"... BEI TEMPI

La lotta per il dominio della terra è ora entrata nella sua fase decisiva. La sfida al completo dominio della terra è legata oramai alla possibilità di impadronirsi di un’ultima posizione di controllo totale al di fuori di essa. La lotta per tale posizione si identifica con la generale riduzione di tutti i rapporti fra le cose a quel “senza distanza” che è l’oggetto proprio del calcolo. Ciò significa l’instaurare lo squallore del deserto al posto dell’esser l’uno di fronte all’altro delle quattro regioni del mondo, significa il rifiuto della prossimità.”
La globalizzazione non corrisponde affatto a una pacifica estensione dei diritti, a un’unica diffusione del benessere su scala cosmopolitica, tutto il contrario!

La globalizzazione – come mostra Heidegger – è una lotta senza quartiere condotta in vista dell’imperialismo planetario da parte del mercato,
di quel mercato capitalistico che ha nel suo stesso fondamento l’essenza che lo porta a occupare ogni spazio esistente,
ogni spazio materiale e immateriale e a saturare il pianeta e la coscienza.

La globalizzazione potrebbe essere anche definita come una forma di inglobalizzazione:
mira a inglobare il mondo intero e la coscienza e il nuovo imperialismo che, a differenza di quelli tradizionali che escludevano, include i vecchi imperialismi.

Nello squallore della fine della distanza e della prossimità,
nella globalizzazione perdiamo il rapporto di prossimità con le cose che ci sono familiari: luoghi, persone, spazi.

Nella globalizzazione lo squallore del mondo di quando diventa mercato e nella figura del calcolo
non sopravvivono più valori culture tradizioni civiltà e tutto diventa duro valore di scambio, nuda forma della circolazione della merce.

Ripensare altrimenti la globalizzazione decostruendo i moduli del pensiero unico, politicamente corretto ed eticamente corrotto,
che sempre giustifica la globalizzazione, non fosse altro che per il fatto che la globalizzazione è il dominio della classe dominante
che trova nello spazio cosmopolitico il proprio locus naturalis per esprimere il proprio conflitto di classe.

Ecco perché in “Glebalizzazione” Fusaro prospetta il tentativo di guardare alla globalizzazione dal punto di vista degli sconfitti,
dal punto di vista del servo e non del signore.

La reductio ad unum è l’essenza della globalizzazione capitalistica che non accetta differenze e non accetta l’altro,
vuole vedere ovunque il medesimo, cioè merci che circolano onnidirezionalmente e persone che a loro volta circolano alla stregua di merci.

Il fondamento ultimo della globalizzazione è la libera circolazione delle merci e delle persone, in cui le merci non per caso vengono prima delle persone.

Il mondo è ridotto a un unico bazar senza confini, a un unico mercato dove non vi sono più confini
e tutto è incluso nell’unico modello dominante capitalistico. Per questo non vi è spazio per le differenze.

Il capitale mondialista ha dichiarato guerra a ogni figura dell’alterità perché vuole vedere ribadito se stesso,
sia il mondo mercificato dove non vi siano madri e padri cittadini e cittadine esseri umani portatori di una cultura, di una tradizione, di uno spessore critico.

Debbono invece esservi solo merci e consumatori individui ridotti al rango di quello che Fusaro nel libro chiama “homo vacuus et cosmopoliticus“:
l’uomo svuotato di ogni spessore critico, di ogni valore, di ogni peso culturale identitario
e quindi disposto ad assumere tutti quelli che la civiltà della pubblicità e del nichilismo delle merci vorrà imporgli.


Chi ancora possiede una propria identità è considerato come un pericolo per le identità altrui, di ogni tipo di identità:
che sia l’identità sessuale, quella di classe, quella culturale, quella nazionale e così via.

L’identità è nemica del capitale perché il capitale vuole dissolvere ogni identità di modo che ne sopravviva una:
quella del consumatore sradicato, deterritorializzato, apolide.

Ciascun popolo, ciascun individuo, rinunziando alla propria identità non può dialogare con le altre non avendo più una propria identità e si produce un vuoto,
un mondo svuotato su cui circolano in maniera uniforme le merci capitalistiche e il falso teorema del multiculturalismo
che in realtà cela il trionfo del monocromatismo assoluto, del mercato capitalistico.

La globalizzazione, se si guarda dal punto di vista dei dominanti, è il paradiso della delocalizzazione,
l’Eldorado della deportazione di massa di individui da sfruttare senza pietà: si ha la possibilità di produrre a costi più bassi.

Se però la si guarda dal punto di vista dei nuovi miserabili della globalizzazione infelice, allora non si ha la globalizzazione, bensì la “glebalizzazione”.

Un processo che sta producendo un abbassamento generale delle condizioni di lavoro e di esistenza di tutti i popoli del pianeta
grazie al dogma della competitività in forza della quale si crea un neocannibalismo planetario
in virtù del quale i più deboli vengono massacrati liberamente dai più forti.


La chiamano privatizzazione, libera concorrenza, in realtà è il massacro incondizionato dei più deboli ad opera dei più forti,
ciò che determina un abbassamento delle condizioni di lavoro e di esistenza per tutti.
 
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Ormai una certa parte del mondo, quello che se lo può permettere perchè ha il posto di lavoro assicurato

e la paga, o la pensione, anche se resta a casa, si sta veramente sbizzarrendo nelle raccomandazioni più fantasiose, assurde, loro modo divertenti, ma completamente inutili.



Le ultime sono riportate anche da Radioradio e riguardano il “Sesso ai tempi del covid”.

Le raccomandazioni sono fatti, naturalmente, dall'”Esperta” di turno,
anche se è ben complesso capire come questa persona si sia costruita la propri “Esperienza”,
questo fatto non poteva sfuggire a Radioradio che lo ha messo in evidenza.

Quindi i rapporti devono essere “Con la mascherina” , ma , soprattutto, “A distanza di sicurezza”

il che pone qualche problema in un rapporto carnale anche perchè, se tale, qualche parte del corpo si dovrà pur toccare il partner… o no ?


Comunque no problem, la decrescita demografica avrà ragione di tutti noi, con o senza Covid.
 
In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, Alberto Villani del Comitato tecnico scientifico si lascia scappare una strana affermazione sulle mascherine.


Sin da inizio emergenza la questione mascherine è stata colma di controversie.

A marzo il Ministero della Salute e i consulenti del governo dichiaravano che non dovevano portarle tutti.


Oggi invece siamo soggetti a un decreto legge che ci obbliga a portare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie anche all’aperto, salvo qualche eccezione.

Medici ed esperti non sembrano aver trovato un accordo sul tema.


All’interno di questo quadro, si inserisce una dichiarazione rilasciata dal pediatra Alberto Villani del Cts al Corriere della Sera.


Alla domanda se sia deluso dall’atteggiamento degli italiani sulle restrizioni, ha risposto:

«Beh, sì. Si può fare di più. L’obbligo di indossare la mascherina all’aperto è un richiamo.
Non importa se scientificamente ha senso oppure no.
È un segnale di attenzione per noi stessi e per la comunità».



Un altro medico che qualche giorno fa ha criticato l’uso improprio delle mascherine è il dottor Daniele De Lorenzo.

Ha pubblicato queste foto scrivendo:

«Eccomi nel diverso uso quotidiano della mascherina: in sala operatoria a fare il mio lavoro (dove serve e dove ci sono persone bisognose)
e all’uscita nel mondo esterno (dove è imposto e dove serve al governo a uso politico)».



Il medico ha lamentato che il DPCM del 7 ottobre ha terrorizzato il popolo
al punto che si vedono anche i runner indossare le mascherine.


«Gli esperti filogovernativi sono i primi a propagare in TV il terrore».


È molto critico sul pensiero di alcuni colleghi soprattutto considerando le modalità di utilizzo delle mascherine
che, nella maggior parte dei casi, non sono corrette.


«Così sul braccio va bene? O in tasca coi soldi e le chiavi?
Chiedo ai consumatori abituali di mascherine stradali perché di solito io la indosso in altre condizioni di igiene e diversamente».
 
in Lombardia proposta di coprifuoco dalle 23 alle 5
“Il Non necessario a breve andrà tolto”

vedo una collegamento tra le due frasi: fermare la ATTUALE generazione del frigorifero.... perchè si sono resi conto del fallimento culturale.

finiti sghei di babbo e nonni questi giovani nottambuli abituati ad alzarsi alle 16 del giorno dopo, domani come si sostenteranno da soli?
un ritorno a VIVERE ALLA LUCE DEL SOLE può fargli solo che bene....magari vedendo gente che lavora gli viene la voglia.....:rolleyes:

i locali si adeguino, la somministrazione dalla notte la possono fare di giorno....con la differenza che di giorno è dura guadagnare facile.
ricordo anche che in discoteca ci si andava dalle 16,30 alle prime ore di buio......resto era night......a caro prezzo, adesso una 16dicenne manda affffXXo genitori se non può uscire dalle 22 e stare fuori almeno fino alle 03 di mattina,,,,, e poi te li trovi schiantati sui pali in auto accartocciate.

NON FACCIO TUTTA UN'ERBA UN FASCIO DEI LOCALI MA NEANCHE VEDO CHE QUESTO MODELLO DI SOCIETA' OFFRE UN FUTURO A QUEI GIOVANI AVVENTORI VISTO CHE LI PORTA A ESSERE SURCLASSATI DA QUALUNQUE STRANIERO CON BEN ALTRA CULTURA, DOVE LA VITA NOTTURNA E' UN EVENTO NON LA NOMALITA', CHE ENTRA IN ITALIA PER CERCARE LAVORO.

ILLUDERCI che questa movida è fatta di soli pasti e bevande è a dir poco fuorviante, sappiamo bene quante sostanze "strane" circolano, stroncare con galera vera (non domiciliari o patteggiamenti) chi le spaccia e rivedere il modello sarebbe la salvezza dei giovani di oggi, dal punto di vista sistema italia e famiglie.

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E poi abbiamo anche questo problema, seppur limitiato.


Sono 5 mila i posti di lavoro persi in Canton Ticino durante questi mesi difficilissimi - sotto vari aspetti - della pandemia da Covid-19.

Il dato, che desta parecchia preoccupazione, è contenuto in un’interrogazione presentata al Governo di Bellinzona
dal gran consigliere leghista Stefano Tonini, che al Consiglio di Stato chiede
«se questi cinquemila posti di lavoro persi - da 232 mila a 227 mila in base ai dati Ustat (l’Ufficio cantonale di Statistica) -
hanno portato in dote altrettanti residenti senza lavoro, considerato che il numero dei frontalieri è rimasto pressoché invariato a quota 67 mila».


Così non è, perché secondo quanto affermato dal sindacato ticinese Ocst,
almeno un migliaio di frontalieri ha perso il posto di lavoro da inizio pandemia ad oggi,
senza dimenticare gli stagionali impiegati nel comparto turistico.

Nell’interrogazione - all’insegna del motto “Prima i nostri!” - Stefano Tonini chiede anche lumi sulle iniziative
a favore dei lavoratori residenti colpiti dalle pesanti ricadute occupazionali a seguito dell’emergenza sanitaria
che in Svizzera sta vivendo una seconda “forte ondata”.

Berna ha confermato che le frontiere restano aperte al transito dei frontalieri.

E, al momento - per usare le parole della presidente della Confederazione, Simonetta Sommaruga - non vi sono “misure in essere ai valichi di confine”.

L’invito - peraltro perentorio - è ad utilizzare ove e quando possibile la collaudata (nei mesi duri della pandemia) formula dello smart working.

«L’aumento dei contagi da Covid-19 è molto preoccupante in Svizzera, motivo per cui la Confederazione e, per diretta conseguenza,
il Cantone hanno già inviato a tutti la raccomandazione di implementare lo smart working.
Ciò significa che ogni azienda che ne ha la possibilità, deve dar corso al telelavoro - sottolinea Andrea Puglia, responsabile frontalieri di Ocst -.

A questo proposito, l’Italia e la Svizzera continuano a mantenere attivo l’accordo sul telelavoro,
che prevede la sospensione dei limiti temporali relativi al telelavoro dei frontalieri
e legati agli obblighi di dover pagare le imposte in Italia, per il periodo legato al telelavoro. F

ondamentale dunque mettere in campo questa misura che già nella prima ondata della pandemia ha dato buonissimi riscontri».


Il tema frontalieri riguarda anche i transiti dai valichi di confine,
con la novità del “coprifuoco” che oggi dovrebbe essere ufficializzato da Regione Lombardia.

«I transiti saranno consentiti anche dopo le 23, a patto che avvengano per motivi strettamente di lavoro
e, da quanto si è capito, ogni lavoratore dovrà compilare un’autocertificazione», aggiunge Andrea Puglia.

Intanto, ieri mattina, nel Luganese, sono state controllate da polizia cantonale e amministrazione federale delle Dogane
125 persone e 93 veicoli, con tre casi di mancata notifica di prestazioni transfrontaliere rilevati.
 
Modello «formaggio svizzero»
Sembra paradossale ma è spiegato dalla teoria del “formaggio svizzero”:
è l’unione (o meglio la contemporaneità) dei provvedimenti a fermare l’accelerazione della pandemia.

Si capisce meglio con l’immagine esplicativa del formaggio con i buchi (vedi sopra, ndr)
compilata e adattata al coronavirus dal virologo Ian M. Mackay:

nessun intervento singolo è ideale e perfetto per fermare l’epidemia, perché ogni misura lascia dei “buchi” da cui passa il virus.
Tanti interventi (nel disegno, tante fette) migliorano di molto le potenzialità di successo.
È una concettualizzazione classica su come affrontare il rischio:
il modello è stato introdotto per la prima volta da James Reason per discutere i guasti in sistemi complessi
che richiedono il coordinamento di molti elementi umani e meccanici al fine di evitare catastrofi (come l’energia nucleare e gli incidenti aerei).



Paragona i sistemi umani a più fette di formaggio svizzero, allineate l’una accanto all’altra,
in cui il rischio che una minaccia diventi una realtà è mitigato dai diversi strati e tipi di difese.

Ciò che è necessario per fermare la diffusione di un agente patogeno come SARS-CoV-2
è raggiungere una sorta di livello di soglia (minimo) di risposta sufficiente
per ottenere una deviazione nella traiettoria dell’epidemia, per portarla sotto controllo.

È necessaria una combinazione di interventi di “riduzione del contatti”
(ad esempio, la chiusura delle scuole e i divieti di assembramento)
e “riduzione della trasmissione” (le misure “igieniche”).

Questi sono chiamati in gergo medico “interventi non farmaceutici”.

La speranza del modello del “formaggio svizzero” è che, indipendentemente dalla combinazione specifica di interventi non farmaceutici,
quando si raggiunge una certa soglia di interventi (fette) si riduce la diffusione dell’epidemia.

Se ogni famiglia, azienda, città attua più di due o tre azioni rigorose, si dovrebbe riuscire a fermare il contagio.



Ovviamente la teoria nell’applicazione si presta a varie critiche,
ad esempio il fatto che a seconda del tipo di rischio che si vuole evitare (in questo caso la diffusione di un virus) non tutte le misure saranno efficaci.

Nel caso del Covid-19, in particolare, bisogna modulare gli interventi conoscendo il comportamento del patogeno,
ma anche le caratteristiche del territorio in cui si sparge
(intervenire in Nuova Zelanda non è come affrontare la pandemia in una zona densamente popolata come la Lombardia).

Poi ci sono “strati” più efficaci e altri meno.

Non ultimo, conta la tempistica degli interventi.
 

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