LE PERSONE NON FANNO i VIAGGI, SONO I VIAGGI CHE FANNO LE PERSONE.

:D
Non saranno solo le macerie del patto del Nazareno a rendere impervia la strada del governo, ma è un fatto che ormai da un mese a questa parte Matteo Renzi sia costretto a una serie di stop and go che per la prima volta da quando è a Palazzo Chigi ne stanno minando l'immagine di decisionista risoluto.

1425415289-renzo.jpg







La prima avvisaglia la si è avuta tre settimane fa sulle riforme istituzionali, perché lo spettacolo della Camera costretta alla sedute notturne per approvare non un decreto in scadenza ma la legge che dopo quasi settant'anni dovrebbe riscrivere la Costituzione e cancellare il Senato è stato pessimo e senza precedenti. Una chiara forzatura che si è immediatamente trasformata in un segnale di evidente debolezza, quella di una maggioranza che nonostante numeri bulgari ha avuto paura di rimanere imbrigliata nell'ostruzionismo.
Da allora sono passati una ventina di giorni - ed è trascorso poco più di un mese dall'elezione al Colle di Sergio Mattarella che ha sancito la rottura dell'intesa tra Renzi e Silvio Berlusconi - e il governo appare sempre più impantanato. L'ultimo atto ieri sul fronte giustizia, con il disegno di legge sulla corruzione annunciato in aula al Senato per oggi e che invece viene rinviato (per la quarta volta). D'altra parte nella maggioranza l'accordo sul falso in bilancio (sanzioni e soglie di punibilità) non c'è e dunque la capigruppo di Palazzo Madama non poteva che rinviarne l'esame (per ora al 17 marzo). E non vanno meglio le cose alla Camera, dove il governo problemi di numeri certo non ne ha. Ieri, infatti, in commissione Giustizia è saltata la maggioranza sulla nuova legge sulla prescrizione, con Ncd che ha votato insieme a Forza Italia e M5S. L'affanno, insomma, è evidente. Anche perché solo 24 ore fa a slittare era stata la riforma della scuola. Con Renzi che dopo tanti annunci roboanti si è limitato a presentare una bozza e rimandare il tutto a settembre.
 
ROMA – Dall’anno prossimo, dal 2016, la soglia di età per andare in pensione salirà di 4 mesi e anzi, per le donne impiegate nel privato, aumenterà addirittura di 1 anno e 10 mesi. Allo studio del governo diverse misure per consentire di abbandonare invece prima il lavoro e di ricevere un assegno pensionistico prima dei 66 anni che sono i requisito anagrafico cui sempre più pensionandi devono ottemperare. Ben quattro i piani per poter mandare la gente in pensione prima dei 66. Ma la questione principe è: chi paga? Perché ogni piano made in governo o in sindacati o in opposizione costa e neanche poco.
 
La prima di queste sarebbe quella di introdurre la possibilità di abbandonare il lavoro anche prima del raggiungimento dell’età richiesta, legando questa scelta ad una contestuale riduzione dell’assegno pensionistico. Nell’idea originale che ha aperto la strada a questa ipotesi, e cioè il disegno di legge presentato dal Pd all’inizio della legislatura con la firma di Pier Paolo Baretta, poi diventato sottosegretario all’Economia, e Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, la ‘flessibilità’ pensionistica avrebbe introdotto anche la possibilità di andare in pensione dopo il raggiungimento dei limiti di età, ottenendo in questo caso un bonus nell’assegno. Ma anche senza il premio, che è già escluso, il punto debole della proposta sono ancora un volta le coperture. Senza una decurtazione pesante, l’ipotesi uscita anticipata non sarebbe infatti finanziariamente sostenibile.
Insomma una pensione presa a 62 anni e tagliata solo del due per cento come da progetto sballa di molti miliardi il bilancio pubblico. In questi casi non è vero che i conti sarebbero pareggiati tra andar in pensione prima e percepire assegno minore. Con il due per cento o giù di lì di penalizzazione si tratterebbe di tornare, senza dirlo, al pre Fornero. Sarebbe di fatto un abbassamento generale dell’età pensionabile, una cosa che di questi tempi neanche Tsipras in Grecia. Per pareggiare vi conti tra la pensione prima e la pensione ridotta bisognrebbe ridurre l’assegno di davvero tanto, non due ma forse venti per cento. E, ovviamente, non si può fare, non ha senso.
 
La seconda ipotesi è quella del reddito minimo. Soluzione accennata dallo stesso presidente dell’Inps Boeri e soluzione che garantirebbe agli esodati, quei lavoratori che dopo la riforma Fornero sono rimasti o rischiano di rimanere senza stipendio e senza pensione, un reddito minimo appunto sino allo scattare della pensione vera e propria. In questo caso le criticità, anzi la criticità è quella del rischio rappresentato dall’indebita appropriazione. E’ cioè facile immaginare che molte sarebbero le truffe di quanti proverebbero ad ‘infilarsi’ tra le fila dei beneficiari senza averne i requisiti. Garantire un salario, un reddito minimo a coloro che restano senza stipendio e non hanno ancora pensione ha già prodotto la moltiplicazione irrefrenabile degli esodati che in origine erano un tot, ora un tot moltiplicato per dieci. Ma soprattutto le esperienze di massa su autocertificazioni Isee e su esenzioni ticket sanitari dimostrano che il reddito minimo farebbe presto, in quantità preoccupante e intollerabile, a diventare abuso da millantata indigenza
 
Terza soluzione, quella del prestito. E cioè il cosiddetto prestito pensionistico, studiato anche dal governo Letta ma mai attuato. Ipotesi che in sostanza significa dare a chi esce in anticipo un piccolo assegno, tempo fa si era parlato di 700 euro al mese, che il pre pensionato dovrebbe restituire a rate una volta raggiunti i requisiti per l’uscita normale. In questo caso il problema non sarebbe finanziario quanto burocratico, o meglio, euro-burocratico. Anche in questo campo infatti valgono i paletti di Bruxelles sulla flessibilità, raccontati dallo stesso Boeri. In questo caso l’Unione europea vedrebbe solo l’aumento immediato della spesa ma non il fatto che più in là si risparmierebbe perché l’assegno sarebbe più basso per recuperare la somma anticipata.
 
Infine, l’ultima soluzione, la quarta, quella dell’integrazione del minimo. Di cosa si tratta lo spiega ancora Salvia sul Corriere:
“Chi ha cominciato a lavorare prima del 1995 aveva comunque a disposizione un paracadute: anche se i contributi versati erano pochi, la sua pensione non poteva essere più bassa di una somma pari a 502 euro, con l’eventuale differenza a carico dello Stato. Venti anni fa la riforma Dini ha eliminato quel paracadute”.
Si tratterebbe quindi di reintrodurre una simile soluzione ma, in questo caso, il problema è assolutamente evidente: come si finanzia?
 
L'illusoria riforma serve solo per garantire potere politico.
Qui ci vorrebbe ben altro ......

Un pachiderma con oltre 12.000 dipendenti e 10.000 collaboratori, con un costo del lavoro di 905 milioni di euro. Che i costi della Rai, l'azienda pubblica televisiva, fossero astronomici non era finora un segreto. Ma il Fatto Quotidiano in un recente articolo ha puntato la lente sugli stipendi dei giornalisti, esaminando la mappa dell’organico che la Rai ha inviato all’azionista di controllo, il ministero dell’Economia, aggiornata al 31 dicembre 2013. "Quel che colpisce", osserva l'autore Carlo Tecce, "non è l’esercito, che arruola privilegiati, garantiti e precari, ma i generali, le stellette, i grossi stipendi che appesantiscono una televisione col pubblico, la pubblicità e il canone che si assottigliano."
Infatti sono 1.581 i giornalisti assunti a tempo indeterminato, di cui "la metà guadagna più di 105.000 euro l’anno e può sfoggiare almeno la qualifica di caposervizio (sono 279)". Stipendi altissimi, che solo da quest'anno non superano il tetto imposto dal Tesoro. "I dirigentigiornalisti, dai capiredattori in su, sono 303 e vanno dai 120.000 euro ai 240.000 euro, il limite imposto alle società partecipate dal Tesoro. Un anno fa, sei giornalisti superavano i 310.000 euro. I telegiornali Rai, che stanno per subire la riforma approvata in Cda, possono muovere 64 inviati speciali, 126.000 euro ciascuno è il prezzo per Viale Mazzini. I vice capiredattori sono 150, tradotti in milioni fanno 18. I redattori ordinari con buste paga che non rispecchiano il mercato odierno – la media è di 85.000 euro – sono 688; chi ha un lavoro a termine riceve non più di 54.000 euro."
Spropositato anche il numero delle qualifiche più alte: "Viale Mazzini per funzionare ha bisogno di 262 dirigenti, una decina lambisce il tetto dei 240.000 euro."
A mandare in onda i programmi Rai sono anche i 10.019 "collaboratori con contratto di lavoro autonomo, a progetto e partite Iva", ovvero i precari, che costano in tutto 110 milioni di euro. Di questi la maggior parte, 9.800, "guadagnano da poche decine di migliaia di euro a un massimo di 80.000."
 
Questi hanno perso la testa completamente. Anche chi ha scritto l'articolo.

.....la maggior parte guadagnano da poche decine di migliaia di euro .....come dire "una miseria".

BUFFONI. Un'operaio porta a casa poco più che UNA, anche DUE decine di migliaia di euro.
 
Ultima modifica:

Users who are viewing this thread

Back
Alto