PREFERIREI MORIRE DI PASSIONE CHE DI NOIA.

Oggi cadono le ultime balle.

Lorenzo Bini Smaghi è stato costretto a confessare la verità:


un euro eccessivamente forte metterà in crisi la ripresa nell’euro.



Anche lui, economista abituato a mentire di mestiere, è stato costretto ad ammettere che, ahimè, i prezzi contano.

I prezzi guidano la domanda e l’offerta, sono quelli che definiscono le scelte economiche,

quindi quando l’euro ha tolto un importante elemento della flessibilità dei prezzi, c

ioè la possibilità di svalutare o rivalutare il cambio, ma questi “Economisti per ogni stagione”per anni

hanno raccontato che erano altri gli elementi importanti, come, ad esempio, la “modernità”, “L’efficienza”, il fatto di essere nordici, etc.



Ora anche questi si rendono conto che, con un euro al di sopra 1,2 dollari, forse non ci sarà crescita.

Allora il cambio è importante, allora il cambio ha un valore, allora sarebbe meglio avere il nostro cambio flessibile…
 
Audizione alla Camera del ministro dell’economia Gualtieri.


Naturalmente, come i ministri degli ultimi 30 anni, annuncia il suo straordinario e fenomenale programma: ridurre il debito.


La cosa divertente è che questo annuncio viene esattamente dopo aver affermato che l’Italia utilizzerà i prestiti del Recovery Fund e del Sure.


Cosi l’incredibile ministro prima dichiara che farà nuovo debito, quindi, immediatamente dopo, ci dice che taglierà questo debito, che soprattutto lui ha creato.


Ora per tagliare il rapporto debito PIL si può agire in tre modi:



  • Agire com l’inflazione, come ha auspicato perfino Prodi, ma è impossibile con l’euro;

  • Con una forte crescita, situazione che sembra impossibile nell’Europa post covid e che comunque non è facilitata da nessuna delle misure prese dal governo;

  • Con un forte aumento dell’avanzo primario, il che significa con un forte aumento delle tasse è un secco taglio dei servizi pubblici, soprattutto pensionistici e sanitari.

Con le sue parole il ministro non fa altro che annunciarci l’ennesima, assurda, inutile stretta fiscale dal 1992.


Che questa avvenga con più tasse,

magari “Ecologiche” come è di moda,

con un taglio delle agevolazioni fiscali, che verrà chiamato riordino,

o con un taglio della spesa pubblica, che è sempre “Improduttiva, anche quando paga poveri, anziani e malati, o con un mix di queste misure, poco importa.


Quello che è sicuro è che gli italiani non avranno” Pasti gratis” e che Sure e Recovery fund non saranno che l’ennesima pietra al collo delle nostre già martoriate aziende.


Purtroppo aver un ministro elle finanze eterodiretto e che non fa gli interessi degli italiani presenta dei problemi alle persone comuni,

ma lui non agisce nell’interesse degli italiani, altrimenti non ci avrebbe portato in questo vicolo cieco.
 
Sulla scuola Azzolina, Conte e Arcuri continuano a fare propaganda.

Nonostante la realtà arrivi puntualmente a smentirli, la ministra dell’Istruzione, il premier e il supercomissario
non perdono occasione per dare numeri, sciorinare dati che solo loro conoscono e si affacciano da ogni tv
a dire frasi tranquillizzanti mentre solo 1 istituto su 10 ha aperto, dei nuovi banchi nemmeno l’ombra
e i ragazzi fanno lezione o nelle chiese o negli ex tribunali.

Come a Genova, inoltre, si ritrovano a scrivere in ginocchio sulle sedie.

Ma c’è una questione di fondo che va chiarita e che merita di essere attenzionata.

E riguarda proprio i dati che ancora mancano e che Arcuri e il governo continuano a tenere ben nascosti.


Fortunatamente ci ha pensato openpoli.it a fare un po’ di chiarezza.


In base al decreto semplificazioni, è la struttura commissariale guidata da Arcuri
ad essere responsabile per l’acquisizione di quanto serve per la riapertura in sicurezza della scuola:
dai dispositivi di protezione individuale agli arredi scolastici, come banchi e sedute.



Purtroppo, però, emerge ancora una grande distanza tra le informazioni comunicate nelle interviste e quelle pubblicate nelle fonti ufficiali, dove manca del tutto il comparto scuola.




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Se i dati esistono perché non pubblicarli?

Se lo chiede OpenPolis, e noi con loro.

Ieri, primo giorno di “riapertura”, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato un’intervista al commissario straordinario all’emergenza.

Arcuri ha citato alcuni dati per valorizzare l’impegno dello stato nella riapertura.

Ad esempio: “Abbiamo distribuito 94,4 milioni di mascherine chirurgiche e 400mila litri di gel igienizzante. Credo bastino no?”.

E anche le prossime consegne dei banchi vengono presentate con lo stesso tono trionfalistico:

“Entro fine ottobre, cioè in due mesi, consegneremo 2,4 milioni di nuovi banchi”.


Sì, ma dove sono le fonti di queste affermazioni che non trovano riscontro nella realtà?

Dove sono i dati ufficiali?

Perché non c’è traccia di essi?



“Per correttezza – segnala openpoli.it – a queste dichiarazioni dovrebbe fare da contraltare una completa pubblicazione dei dati,
per rendere possibile a tutti una valutazione obiettiva.

Altrimenti il dato, come elemento a sé stante, e contestualizzato, diventa un espediente comunicativo,
se non un elemento funzionale a una propaganda monodirezionale.

È per questo che, fin dall’inizio della crisi, abbiamo chiesto la pubblicazione di tutti i dati sulla gestione dell’emergenza”.


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Ad oggi purtroppo non solo non ci sono i dati sui fornitori, ma neppure quelli su tutti i materiali acquistati per il rientro in classe.


Prendiamo il dato sui dispositivi di protezione.


“Il commissario Arcuri – si legge ancora nell’analisi – parla di 94,4 milioni di mascherine chirurgiche consegnate alle scuole,
ma è un informazione che allo stato attuale non risulta verificabile con gli strumenti messi a disposizione.
Da marzo al 10 settembre sono state consegnate 785 milioni di mascherine, di cui oltre la metà chirurgiche (473 milioni).
Da luglio, la piattaforma mostra che sono state distribuite sul territorio nazionale oltre 160 milioni di mascherine chirurgiche.
Quante di queste sono andate alle scuole? Selezionando tra i possibili destinatari, non è presente una opzione ‘scuola’, per cui questa informazione dovrebbe essere su ‘altro'”.


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“Ma il dato che emerge isolando ‘altro’ non è compatibile con le dichiarazioni del commissario:

6 milioni e mezzo di mascherine consegnate da marzo, molto meno dei 94,4 milioni dichiarati nell’intervista.

Quindi delle due l’una: o il dato sul sito non è aggiornato,

oppure se è aggiornato non è possibile verificarlo, dato che non è distinguibile dal resto degli acquisti”.



Senza dati verificabili, tutto si riduce a propaganda.

Ragionamenti analoghi valgono per il gel disinfettante e per gli arredi scolastici,

neppure presenti sul sito come categoria merceologica.

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“Stando così le cose – conclude openpolis.it – l’invito del commissario a valutare la bontà della sua gestione diventa strumentale.

Senza contesto, senza dati, senza possibilità di verifica, come si fa a valutare l’attività di una amministrazione pubblica?

L’apprezzamento o meno da parte dell’opinione pubblica diventa funzione delle posizioni politiche,

cioè l’esatto contrario del metro di giudizio per valutare un funzionario pubblico.

I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”.


Non fa una piega.
 
Oggi cadono le ultime balle.

Lorenzo Bini Smaghi è stato costretto a confessare la verità:


un euro eccessivamente forte metterà in crisi la ripresa nell’euro.



Anche lui, economista abituato a mentire di mestiere, è stato costretto ad ammettere che, ahimè, i prezzi contano.

I prezzi guidano la domanda e l’offerta, sono quelli che definiscono le scelte economiche,

quindi quando l’euro ha tolto un importante elemento della flessibilità dei prezzi, c

ioè la possibilità di svalutare o rivalutare il cambio, ma questi “Economisti per ogni stagione”per anni

hanno raccontato che erano altri gli elementi importanti, come, ad esempio, la “modernità”, “L’efficienza”, il fatto di essere nordici, etc.



Ora anche questi si rendono conto che, con un euro al di sopra 1,2 dollari, forse non ci sarà crescita.

Allora il cambio è importante, allora il cambio ha un valore, allora sarebbe meglio avere il nostro cambio flessibile…
il cambio è importante, allora il cambio ha un valore, allora sarebbe meglio avere il nostro cambio flessibile…

certo che si, ma da LETTERATURA .........è chiaro che SONO le banche centrali da anni DROGANO il mercato con acquisti a tassi bassi anche negativi
Il tasso di cambio è il valore di 1 unità di una valuta in termini di un'altra valuta.

Se ad esempio diciamo che il tasso di cambio euro/dollaro è oggi a 1,187, significa 1 € = 1.187 $

Si noti che mentre noi in Europa utilizziamo il metodo certo per incerto (1=x), il tasso di cambio del dollaro verso le valute dei paesi emergenti si basa sul metodo contrario, incerto per certo, ossia quante unità di valuta locale si ottengono in cambio di un dollaro(x=1).

Nel nostro sistema, quindi, un aumento del tasso di cambio significa che la valuta si apprezza - con lo stesso euro compreremo una maggior quantità di dollari.
Naturalmente la convenienza del cambio va valutata anche in rapporto all'inflazione. Infatti se sale il cambio, ma nell'altro paese sono aumentati i prezzi, può essere che il potere d'acquisto all'estero della nostra valuta resti immutato o addirittura peggiori. Si parla in questo senso di tasso di cambio reale.

le banche centrali dei paesi possono anche intervenire attraverso il movimento dei tassi di interesse: alzare i tassi significa attirare capitali e sostenere il cambio, viceversa per deprezzare la valuta si fanno scendere i tassi.
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Il tasso di interesse è il prezzo che le famiglie, le imprese e gli stati nazionali devono pagare per avere in prestito del denaro.
- Se la Banca Centrale Euroepea alza il tasso di interesse, il costo del denaro aumenta, cioè aumenta il prezzo da pagare per avere un prestito.
- A questo punto interviene la legge della domanda e cioè che la domanda di un bene, in questo caso il denaro in moneta, diminuisce quando il suo prezzo cresce.
Quindi la domanda di denaro diminuisce e la BCE di conseguenza deve stampare meno carta moneta.
- Ecco che a questo punto interviene l'altra legge, detta appunto legge quantitativa della moneta, secondo cui quanto minore è la massa monetaria in circolazione, tanto minore sarà il tasso di inflazione.
- Tale legge si spiega col fatto che se c'è poca quantità di moneta disponibile, la domanda di beni di consumo o di investimento diminuisce e di conseguenza chi vende questi beni deve abbassarne il prezzo per poterli continuare a vendere. Questo abbassamento dei prezzi riduce quindi l'inflazione.
- Keynes criticò questa legge, in una teoria dalle formule matematiche piuttosto complesse, avanzando la tesi che nei periodi di recessione bisognasse sostenere i consumi e quindi il commercio attraverso una iniezione di moneta da ottenersi con l'abbassamento dei prezzi.
- Ma attenzione: quello che le due risposte precedenti non dicono è che Keynes si riferiva alle situazioni di pura recessione economica, ma non diceva nulla riguardo ai casi di coesistenza tra recessione ed inflazione.
- In questi casi la scelta non è più economica, ma politica, e cioè: è da considerarsi polticamente più grave l'inflazione o la recessione?
- La BCE da sempre ha considerato più grave l'inflazione, perché distrugge il potere d'acquisto dei salari e delle pensioni.
- La Federal Reserve americana invece considera più grave la recessione, e, nonostante l'inlfazione negli Usa sia il doppio della nostra, la Fed continua ad abbassare i tassi, cosa che tra l'altro ha anche causato il crollo della valuta del dollaro rispetto all'euro e allo yen.
- Le risposte precedenti accennano al fatto che l'attuale inflazione ha tra le sue cause principali il fatto che i cartelli, e cioè gli accordi monopolistici tra le grandi società petrolifere e alimentari, hanno fissato prezzi molto più elevati rispetto agli effettivi costi di produzione. In realtà questa politica in Europa e in Italia è vietata, mentre negli Usa, in Russia, nell'Opec e nei vari paradisi fiscali è tollerata. Quindi l'inflazione relativa ai prezzi dei carburanti e degli alimentari va combattuta soprattutto con una estensione della legislazione antitrust, che però purtroppo le potenze suddette rifiutano.
-Però bisogna anche tener conto che i prezzi dei carburanti sono tenuti alti dalle numerose imposte che lo stato italiano applica su benzina e gasolio.
 
E' così. Solo con lo stato di terrore possono ambire a restare al governo ed incassare i dindini.


Niente da fare: gli “espertoni” decidono di non decidere e in Italia la quarantena resta di 14 giorni.

Ieri il Comitato tecnico scientifico ha analizzato la possibilità di ridurre il tempo di isolamento in caso di contagio,
alla luce delle nuove evidenze scientifiche. Alla fine però il Cts si è preso altro tempo.

Al momento la linea è quella prudenziale del mantenimento dei 14 giorni” di quarantena,
precisa il fantomatico Walter Ricciardi, ex attore e consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, intervenuto a SkyTg24.


Ricciardi, tristemente noto per essersi spacciato come dirigente dell’Oms per poi essere smentito dall'organizzazione stessa, riporta che ieri al Cts

“è stata avviata la discussione sulla base di due documenti internazionali.
Il primo della Francia, che ha ridotto in una maniera che ci ha lasciato estremamente perplessi” la quarantena “a 7 giorni,
e in questo modo si perde una quantità enorme di soggetti infetti.
E poi della Germania che ha proposto di abbassarla a 10 giorni.
Siamo rimasti” d’accordo di valutare queste ipotesi, “anche se permane sia da parte dell’Oms che dell’Ecdc l’indicazione a 14 giorni.
Entrambe queste istituzioni ci dicono che, se si abbassa la durata si arriva a perdere il 10%” dei casi,
“e in una situazione come quella francese, questo significa che si perdono 1.000 casi al giorno”.
“Al momento la linea è questa, ma abbiamo anche detto che è importante che queste decisioni vengano prese con un coordinamento internazionale.
Queste misure non possono essere prese dai singoli Paesi”, conclude.


A sentire gli esperti non schierati con il governo giallofucsia, in primis Matteo Bassetti,
anche in Italia ci sono le condizioni per ridurre la quarantena a 7 giorni, o al massimo a 10,
visti i costi sociali ed economici che comporta tenere le persone a casa, lontane dal lavoro, in un momento di crisi molto grave.
 
Il presidente della Repubblica non si tira per la giacchetta.

Non gli si danno lezioni e neppure consigli.

Praticamente, è incriticabile.

Più che muovergli contestazioni, gli si lanciano appelli.

Solo che gli appelli, finora, non hanno funzionato.



Quante volte gli hanno chiesto di valutare la rispondenza dell’attuale maggioranza parlamentare al consenso dei governati?

L’ultima, in ordine di tempo, è stata Giorgia Meloni, secondo la quale il capo dello Stato non è solamente un notaio
e può fare ricorso all’istituto dello scioglimento delle Camere, qualora ravvisi che si è determinata una frattura insanabile tra la gente e il palazzo.


Sarebbe certamente il caso, se il centrodestra stravincesse le regionali.


Dall’esecutivo hanno già fatto sapere che non schioderanno.

E la sensazione è che, nonostante gli attriti nei mesi del lockdown, non sarà il Colle a sfrattare Giuseppe Conte.


L’avvocato e Mattarella non si amano particolarmente: anzi, si dice che a quest’ultimo abbiano dato fastidio le uscite del premier su un mandato bis.

Una ricandidatura, a questo punto, sarebbe solo un modo per bruciare un concorrente scomodo.

Peccato che la posizione del presidente della Repubblica sia ormai cristallina: se accade qualcosa che imbarazza l’establishment,
è prudente come un serpente (non è un insulto: citiamo il Vangelo).


Se, invece, si tratta di bacchettare i sovranisti o puntellare la zoppiccante ammucchiata giallorossa, è prodigo di esortazioni.


Sarebbe facile ricordare il clamoroso veto su Paolo Savona ministro dell’Economia,

o la scrollata di spalle sullo scandalo Csm.

O la visita alla scuola cinese di Roma, quando pareva che il problema dell’Italia fosse la sinofobia e non il coronavirus.


La tendenza sembra essersi accentuata negli ultimi tempi.


Siamo di fronte a un’imbarazzante serie di svarioni sulla scuola.

E Mattarella cosa fa?

Va a Vo’ a dire che il Paese non deve dividersi sulla ripartenza.

Tradotto: niente critiche a Conte e Lucia Azzolina.

Tanto che il presidente del Consiglio, cogliendo la palla al balzo, ieri si schermiva: ha ragione Mattarella, basta divisioni.

Addirittura, il capo dello Stato si è spinto fino a utilizzare il tema del diritto allo studio come argomento pro banda larga.

Sarà malizia, ma pare un assist al progetto di rete unica, battezzato da Beppe Grillo,

benedetto dall’esecutivo e sul quale – peggio mi sento – avevano messo gli occhi i cinesi, sempre in partita sul 5G.


Dello stesso tenore sono le numerose dichiarazioni pro Europa di Mattarella – che almeno,
quando erano in alto mare i negoziati per il Recovery fund, aveva alzato la voce con i nostri partner nell’Unione.



Tirando le somme: è inutile che la destra si aspetti di essere garantita dall’inquilino del Quirinale.

È stato lui, in fondo, a nutrire l’ego di Conte, fino a convincerlo che potesse giocare una partita personale, allo scopo di scalzare Matteo Salvini.

È sempre lui a mostrarsi timido quando si tratta di tutelare un esponente sovranista

– si veda il caso del complotto dei magistrati contro il capo della Lega – ma solerte, se c’è modo di scudare i giallorossi dalle rimostranze dell’opposizione.


Certo, l’appello è sacrosanto: presidente, se c’è, batta un colpo.


Batta un colpo quando le urne avranno parlato,
provi che la democrazia è più importante del calcolo per cui quest’accozzaglia grillopiddina deve sopravvivere fino al semestre bianco,
per scongiurare elezioni anticipate e arrivare alla nomina di un successore gradito all’Europa.


Il quale, per altri sette anni, dovrà mettere i bastoni tra le ruote al centrodestra.


La speranza, naturalmente, è l’ultima a morire.


Ma finora, il copione è stato sempre lo stesso: il Colle, interrogato, non rispose.
 
Il presidente della Repubblica non si tira per la giacchetta.

Non gli si danno lezioni e neppure consigli.

Praticamente, è incriticabile.

Più che muovergli contestazioni, gli si lanciano appelli.

Solo che gli appelli, finora, non hanno funzionato.



Quante volte gli hanno chiesto di valutare la rispondenza dell’attuale maggioranza parlamentare al consenso dei governati?

L’ultima, in ordine di tempo, è stata Giorgia Meloni, secondo la quale il capo dello Stato non è solamente un notaio
e può fare ricorso all’istituto dello scioglimento delle Camere, qualora ravvisi che si è determinata una frattura insanabile tra la gente e il palazzo.


Sarebbe certamente il caso, se il centrodestra stravincesse le regionali.


Dall’esecutivo hanno già fatto sapere che non schioderanno.

E la sensazione è che, nonostante gli attriti nei mesi del lockdown, non sarà il Colle a sfrattare Giuseppe Conte.


L’avvocato e Mattarella non si amano particolarmente: anzi, si dice che a quest’ultimo abbiano dato fastidio le uscite del premier su un mandato bis.

Una ricandidatura, a questo punto, sarebbe solo un modo per bruciare un concorrente scomodo.

Peccato che la posizione del presidente della Repubblica sia ormai cristallina: se accade qualcosa che imbarazza l’establishment,
è prudente come un serpente (non è un insulto: citiamo il Vangelo).


Se, invece, si tratta di bacchettare i sovranisti o puntellare la zoppiccante ammucchiata giallorossa, è prodigo di esortazioni.


Sarebbe facile ricordare il clamoroso veto su Paolo Savona ministro dell’Economia,

o la scrollata di spalle sullo scandalo Csm.

O la visita alla scuola cinese di Roma, quando pareva che il problema dell’Italia fosse la sinofobia e non il coronavirus.


La tendenza sembra essersi accentuata negli ultimi tempi.


Siamo di fronte a un’imbarazzante serie di svarioni sulla scuola.

E Mattarella cosa fa?

Va a Vo’ a dire che il Paese non deve dividersi sulla ripartenza.

Tradotto: niente critiche a Conte e Lucia Azzolina.

Tanto che il presidente del Consiglio, cogliendo la palla al balzo, ieri si schermiva: ha ragione Mattarella, basta divisioni.

Addirittura, il capo dello Stato si è spinto fino a utilizzare il tema del diritto allo studio come argomento pro banda larga.

Sarà malizia, ma pare un assist al progetto di rete unica, battezzato da Beppe Grillo,

benedetto dall’esecutivo e sul quale – peggio mi sento – avevano messo gli occhi i cinesi, sempre in partita sul 5G.


Dello stesso tenore sono le numerose dichiarazioni pro Europa di Mattarella – che almeno,
quando erano in alto mare i negoziati per il Recovery fund, aveva alzato la voce con i nostri partner nell’Unione.



Tirando le somme: è inutile che la destra si aspetti di essere garantita dall’inquilino del Quirinale.

È stato lui, in fondo, a nutrire l’ego di Conte, fino a convincerlo che potesse giocare una partita personale, allo scopo di scalzare Matteo Salvini.

È sempre lui a mostrarsi timido quando si tratta di tutelare un esponente sovranista

– si veda il caso del complotto dei magistrati contro il capo della Lega – ma solerte, se c’è modo di scudare i giallorossi dalle rimostranze dell’opposizione.


Certo, l’appello è sacrosanto: presidente, se c’è, batta un colpo.


Batta un colpo quando le urne avranno parlato,
provi che la democrazia è più importante del calcolo per cui quest’accozzaglia grillopiddina deve sopravvivere fino al semestre bianco,
per scongiurare elezioni anticipate e arrivare alla nomina di un successore gradito all’Europa.


Il quale, per altri sette anni, dovrà mettere i bastoni tra le ruote al centrodestra.


La speranza, naturalmente, è l’ultima a morire.


Ma finora, il copione è stato sempre lo stesso: il Colle, interrogato, non rispose.

la immensa massa monetaria stanziata dalla ue, anche se arriva a rate, comporta un attaccamento al potere fuori dal'ordinario a cui tutti vogliono partecipare da un lato, e l'attenzione del colle che vengano spesi per fini utili dall'altro.
non dimentichiamo che alle promesse elettorali segue la corte dei conti.......di fatto non è mai cambiato nulla se non bonus e detrazioni varie temporanei.
sicuramente a seguito del voto regionali seguirà un rimpasto di governo per gestire la torta...siamo in italia, e state certi che al popolo bue di quei soldi non arriva DIRETTAMENTE neanche un euro.
 

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Ecco come i soldi sono stati buttati al vendo nel passato ........perchè tutti gi altri l'hanno presa.

La Corte costituzionale italiana è l’ente con le retribuzioni più alte a favore dei suoi dipendenti.

Un giudice costituzionale guadagna l’equivalente di 30mila euro al mese, più dei suoi omologhi in tutto il mondo.

Nel 2013 una ricerca aveva dimostrato, confronti alla mano,
quanto il trattamento economico dei nostri giudici costituzionali fosse completamente sproporzionato rispetto agli altri Paes
i:

oltre mezzo milione di euro all’anno era all'epoca la retribuzione per il presidente della Corte (per la precisione quasi 550mila),

458mila per i singoli giudici componenti.


Addirittura il triplo allora (oggi il doppio) rispetto ai “Justice” della celeberrima Corte Suprema degli Stati Uniti.

E non solo gli stipendi dei singoli giudici costituzionali italiani erano (e sono) fuori misura: l’intera Corte italiana costa il triplo di quella inglese.

Forse anche a causa degli echi di quella ricerca, e in diretta conseguenza di una misura del governo Renzi
che aveva imposto il limite di 240mila euro alle retribuzioni annuali lorde di tutti i dipendenti pubblici compreso il primo presidente della Corte di cassazione
– cui lo stipendio dei giudici costituzionali è per legge parametrato – a decorrere dal 1° maggio del 2014
la retribuzione dei Giudici costituzionali era stata ridotta di un quinto circa, scendendo a 360mila euro all’anno.

Ma la “macchina” della Corte Costituzionale è ancora straordinariamente costosa.

Solo per le “spese correnti” della categoria 1, quella che riguarda i quindici togati,
il Bilancio di Previsione della Corte per l’anno finanziario 2019 indica una spesa di quasi otto milioni di euro

(per la precisione: 7 milioni 917mila euro) tra retribuzione, oneri previdenziali ed erariali a carico dei giudici,
oneri per quiescenza a carico della Corte sulla retribuzione dei giudici, e infine Irap e altri oneri previdenziali a carico della Corte sulla retribuzione dei giudici.

Altri 28 milioni e 680mila euro sono indicati, nella categoria 2, per le spese relative al personale in attività di servizio
(da notare qui, al capitolo 209, che gli stagisti vengono quantomeno nominati: vi sono 544.500 euro in bilancio nel 2019 per
“Compensi ad incaricati esterni, stranieri e componenti Collegio esperti in contabilità pubblica e rimborsi spese di viaggio a stagisti”).

Questi 28 milioni e rotti servono a pagare poco meno di trecento “teste”: 155 dipendenti di ruolo,
otto dipendenti a contratto, 62 dipendenti “comandati” da altre amministrazioni, 44 carabinieri del comando della Corte più quattro vigili del fuoco,
e infine quindici persone con “incarichi conferiti e in svolgimento”, di cui sette al Servizio Studi.

Facendo una media ognuna di queste persone – ovviamente sempre ricordando il mezzo pollo di Trilussa* –
percepisce dalla Corte Costituzionale una retribuzione di circa 100mila euro all’anno.

Quasi 13 milioni di euro vengono infine spesi ogni anno per la categoria 3
, “Personale in quiescenza”
- per il Riequilibrio del Fondo trattamento previdenziale dei Giudici costituzionali e quello del personale.

Parliamo di ventiquattro ex giudici costituzionali più undici loro superstiti, e poi 147 ex dipendenti e ottantotto loro superstiti.

Ognuno di questi pensionati d’oro (sempre Trilussa in mente) riceve dalla Corte poco meno di 50mila euro all’anno.

8 + 28 + 13 = 49 milioni di costo ogni anno.

Al Presidente veniva inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953.

Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1,
della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione
corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà".

Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.

Presidenti solo per 3 mesi -

Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009.
Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata".

Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare.

Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi.

Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005.

Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui.

Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012.
 
Nessuno strappo alla tradizione.

Chiamati a eleggere il loro presidente i giudici costituzionali

hanno scelto il collega che da più tempo siede a palazzo della Consulta.


Mario Morelli, 79 anni, che sino ad oggi ricopriva il ruolo di vice presidente della Corte costituzionale.

Giunta però divisa al voto sul nuovo presidente, eletto alla seconda votazione.


Mario Morelli ha ottenuto 9 voti. Cinque quelli andati a Giancarlo Coraggio, uno a Giuliano Amato.


Il successore di Marta Cartabia però potrà resterà in carica solo tre mesi.

A dicembre scadrà infatti il suo mandato di anni di giudice costituzionale.


Non è la prima volta di una presidenza breve alla Corte costituzionale.


Anche Giuliano Vassalli e Giovanni Conso furono al vertice della Corte costituzionale solo tre mesi.


E ancora meno tempo (48 giorni) rimase alla guida della Consulta Vincenzo Caianiello.


In passato non sono mancate polemiche per i “benefici” di cui godevano i presidenti uscenti anche dopo un brevissimo mandato.


Oggi non è più prevista l’auto di servizio con autista e l’indennità aggiuntiva riconosciuta agli ex presidenti

scatta solo se si è stati per almeno 10 mesi alla guida della Consulta nello stesso anno solare. (fonte Ansa)
 

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