OGNUNO DI NOI HA VISSUTO QUALCOSA CHE L'HA CAMBIATO PER SEMPRE

In un tale contesto, dunque, cosa fare?

Una delle vie percorribili è il boicottaggio del Green pass,

sia da parte degli esercenti sia da parte dei singoli cittadini che ne sono titolari.


Rifiutarsi di chiedere o mostrare il Green pass pur detenendolo

ed essere disposti a pagare la eventuale relativa sanzione

– che in fin dei conti è poca cosa rispetto ai beni in questione –

è la via più diretta, più sicura e più giuridica

per far sì che la logica del Green pass non si istituzionalizzi

– come sta già avvenendo –

e che lo Stato di diritto venga finalmente ripristinato.


Non si tratta, ovviamente, né di una questione politica né ideologica,

come potrebbero ritenere gli ingenui

o coloro che sono in malafede


perché nel segreto della loro anima nera militano per la soppressione della effettività del diritto,

ma si tratta di una questione puramente giuridica.



Lo Stato ha pesantemente ridotto gli spazi di libertà e i diritti fondamentali a causa della pandemia
;

lo Stato ha inserito uno strumento che riconosce l’ampiezza delle libertà e dei diritti
in base ai meriti sanitari acquisiti (vaccinazione parziale, totale, guarigione) durante l’emergenza pandemica;

lo Stato non intende più tornare allo status quo ante,
lasciando perdurare questo strumento sostanzialmente anti-giuridico.


Contro tale dinamica

la disobbedienza del singolo cittadino alla legge ingiusta,

costituisce l’unica via per riappropriarsi di quei diritti e di quelle libertà fondamentali di cui è stato privato

e, aspetto ancor più importante, per ripristinare la corretta visione del diritto

che non è soltanto la volontà dello Stato,

che non è la pura correttezza formale della norma che lo esprime,

che non è il mero utile della società,

che non è la necessità legalizzata.



Una erronea visione
del diritto,
della sua natura,
della sua funzione,
della sua logica,
dei suoi limiti
non può che causare una erronea visione dello Stato
ed anche dei profili giuridici della gestione di una pandemia.


Se la subordinazione dei diritti fondamentali ad un certificato

è stato qualcosa di inedito e aberrante nella storia del diritto,

la sua istituzionalizzazione,

tramite la non abolizione del Green pass illimitato

per di più passivamente accettato da parte dei singoli cittadini,

non può che essere un qualcosa di gran lunga più mostruoso

poiché rivelerebbe l’inconsistenza delle coscienze giuridiche

e significherebbe che qualunque provvedimento formalmente corretto,

ma sostanzialmente anti-giuridico e anti-umano

potrebbe essere approvato con la sicurezza che venisse da tutti tacitamente accettato:


è la prova della decadenza della civiltà giuridica dinnanzi alla quale ci troviamo.
 
Dinanzi all’ingiustizia e all’antigiuridicità di certe norme,

come per esempio quella che rende illimitato il Green pass,

soltanto la disobbedienza civile organizzata

e l’amicizia tra i cittadini possono rappresentare uno strumento di rivendicazione dello Stato di diritto

come Stato che non crea o concede i diritti,

ma come Stato che riconosce i diritti naturali dei singoli e della comunità.



Il Green pass illimitato

è espressione della deriva totalitaria

che le istituzioni hanno intrapreso in epoca pandemica

con la complicità di tanti semi-addormentati (molti perfino giuristi)

che non si sono resi conto di una simile tragedia;



la disobbedienza al Green pass è, dunque,
la reazione giuridica più giusta, equilibrata ed opportuna
per rispondere a tale deriva anti-giuridica che si intende normalizzare.


Obbedire al Green pass soltanto per timore della sanzione pecuniaria

significherebbe anteporre l’interesse e l’utile economico

alla rivendicazione dei propri diritti fondamentali che il Green pass illimitato lede e sottrae;


Disobbedire al Green pass – non chiedendolo e non esibendolo pur essendone titolati –

significa, invece, pretendere di riportare l’ordine del diritto nella sua propria dimensione

in cui esso non traduce l’arbitrarietà e l’onnipotenza dello Stato,

ma esprime la sua specifica dimensione onto-assiologica

costruita sull’orizzonte di senso della persona

e dei suoi ineliminabili e inalienabili diritti naturali
.


Se il pagamento della relativa sanzione pecuniaria è il piccolo prezzo da versare
per rivendicare la tutela di valori ben più consistenti
si paghi tale fio con distaccata disinvoltura,
ma con la consapevolezza per cui si sta lottando per un bene più grande, cioè l’integrità del diritto.


In conclusione:


disobbedire al Green pass illimitato

significa, in sostanza, obbedire al diritto immutabile;


disobbedire al Green pass illimitato

significa, in concreto, obbedire alla giustizia;


disobbedire al Green pass illimitato

significa, in definitiva, obbedire alla coscienza del valore umano del diritto.
 
Si può dire : BASTA

Si deve dire : BASTA



Com’è noto, secondo quanto imposto dal famoso ‘decreto festività,’
a partire dal 1 Febbraio e fino al 31 marzo , anche l’accesso, tra gli altri,
agli uffici pubblici è possibile solo se si dimostra di essere in possesso della certificazione verde COVID.

Inevitabili, stante la genericità della qualificazione degli uffici accessibili solo in via condizionata,
le prime aberranti storture applicative della normativa in esame.


Così, presso il Tribunale di Verona e precisamente davanti alla procura
raggiunta nella giornata di venerdì u.s. da tutti coloro che volevano depositare la denuncia
predisposta dal nostro collega avv. Marco Mori,
accadeva che cittadini solerti e disciplinati in attesa di poter accedere secondo il proprio ordinato turno
presso gli uffici giudiziari della Procura, venissero invece letteralmente bloccati dai vigilantes ai tornelli,
coadiuvati talora da agenti di polizia e da carabinieri in borghese che, schierati come delle guardie svizzere,
impedivano loro di passare, scoraggiandone definitivamente l’encomiabile proposito civico.

Soltanto grazie al puntuale intervento di una attenta collega del Foro di Verona
che si trovava ai tornelli per accedere al Tribunale e che aveva assistito all’integrale svolgersi della vicenda,
abbiamo appurato che la ragione di tale pervicace ostruzionismo era dovuto all’invalsa abitudine
da parte dei fanatici del marchio verde di “fare di ogni erba un fascio”
e cioè l’indiscriminata applicazione delle regole impositive del Green Pass a prescindere dal rispetto di quelle in cui è fatto salvo!!!


È opportuno infatti menzionare il vademecum di cui al DPCM esplicativo del 21 gennaio 2022
che sarebbe auspicabile venisse almeno spiegato nel contenuto
se non tenuto effettivamente presente sopratutto dai pasdaran del Green Pass.

Tra le deroghe previste in via amministrativa dal DPCM suindicato c’è anche quella che qui ci interessa
ovvero quella che contempla come correttivo all’obbligo di Green Pass negli uffici pubblici anche
l’ esigenza di giustizia per la quale è consentito l’accesso agli uffiuci giudiziari
esclusivamente per la presentazione indifferibile e urgente di denunce da parte di vittime di reati
(..)


Tuttavia, nonostante la collega avesse reso edotti i preposti al controllo di questo correttivo,
lo sbarramento agli uffici è stato mantenuto ad oltranza consentendo l’accesso
ed il relativo deposito della denuncia solamente a coloro che hanno potuto esibire fisicamente il loro lasciapassare.

Il fatto che, richiesti di legittimare questo impedimento mediante l’esibizione delle disposizioni interne degli uffici che avrebbero impartito questo ordine,
gli stessi ostentassero invece proprio la norma che abbiamo menzionato come deroga,
per di più aggrappandosi alle parole “indifferibili e urgenti” sbandierandola come una sorta di scudo di invincibilità
la dice lunga sulla completa follia che sta alla base di tutto questo impianto vessatorio nei confronti del cittadino.


È evidente, alla luce di quanto accaduto, che a nulla valgono i tentativi di specificare seppure in via suppletiva
gli effettivi ambiti in cui si accede muniti di certificato se gli stessi addetti ai controlli,
quelli che la normativa ha cura di precisare dovrebbero possedere a loro volta specifica autorizzazione delegata
al trattamento dei dati sensibili nel rispetto della legge c.d. sulla privacy, sono i primi a non rispettarle.


Ovviamente il comportamento abusivo e oltremodo illegittimamente vessatorio dei vigilantes
verrà valutato sotto ogni profilo di illiceità nelle opportune sedi di giustizia.
 
Doveva essere il Festival dell’inclusività e dell’anticonformismo,
incarnati da molte «unicità» chiamate ad animare il palco dell’Ariston.

Almeno così diceva il copione.

Ora che Sanremo è terminato, però, si ha la netta impressione che i gesti più trasgressivi ed anticonformisti
li abbiano compiuti Gianni Morandi, un maschio bianco eterosessuale della generazione in cui il patriarcato era un non problema,
e Sabrina Ferilli, una donna che sulle battute finali, con i suoi comportamenti, ha dato vita al famigerato Ferilligate.

Dunque, si ha l’impressione che le uniche vere trasgressioni e manifestazioni di anticonformismo
siano arrivate dai fuori copione, in un paio di momenti di autenticità
che hanno fatto strame del politicamente corretto e dell’idea che l’inclusività si possa costruire a tavolino.


Il Ferilligate, dunque.
Sia la Sabrina nazionale, sia Amadeus, per il quale già si prefigura la quarta conduzione, hanno smentito di aver avuto frizioni.
Bene, prendiamo per buone le loro parole.
Ciò non toglie che, al di là delle imprecazioni dietro le quinte, sul palco siano successe alcune cose:

Ferilli che cerca di riprendersi la parola quando Amadeus dimentica di passargliela nella presentazione di Emma,

Ferilli che ribatte all’interruzione del conduttore mentre parla con Iva Zanicchi,

Ferilli che non si trova più,

Ferilli che resta rigida come un ciocco di legno quando Amadeus prova a prenderla per mano.

Ferilli che dimostra che della libertà di fare il monologo contro i monologhi non sa che farsene se poi finisce messa in un angolo.

E che si ribella fregandosene di tutto un programma in cui va bene la propria unicità,
purché sia perfettamente inserita nell’impalcatura prefabbricata.

“Nessuno mette Sabri in un angolo”, si potrebbe dire parafrasando la celeberrima scena di Dirty Dancing,
con la differenza che qua Ferilli dall’angolo ci si è tirata fuori da sola.


Chi invece nell’angolo c’era rimasta finché non è arrivata un uomo a salvarla è stata Maria Chiara Giannetta.

Bravissima e composta, durante la premiazione della serata cover,
l’attrice era rimasta in un angolo nelle retrovie mentre in prima linea si consumava lo psicodramma del maestro perduto,
che impediva a Morandi e Jovanotti di fare il bis dopo la proclamazione.

Nel bel mezzo di questo siparietto, mentre tutti erano presi da altro,
Morandi si è girato ed è andato a recuperarla, portandola al centro della scena con la più naturale delle galanterie.


Né il direttore artistico del Festival della valorizzazione delle donne,

né il cantore di ogni inclusività si erano posti il problema.


Ed, anzi, a un certo punto, quando Morandi si è allontanato,
sul viso di Jovanotti si è anche letta un’espressione di sgomento che si potrebbe tradurre così: «E mo’ che fa ‘sto matto?».



Insomma, alla fine, per fare salvo l’onore del palco dell’Ariston in tema di anticonformismo e trasgressione
sono serviti una donna che poco prima aveva rivendicato con naturalezza di avere «un marito benestante»
ed un uomo di quelli che magari ti aprono pure lo sportello e che se ti regala dei fiori
non si aspetta che tu li ceda al primo che ti trovi davanti perché accettarli non è abbastanza femminista.


E ciaociao a tutti i cliché del politicamente corretto.
 
Le scritte ingiuriose dei “kompagni” fiorentini sono apparse oggi sui muri dell’università.

“Assistiamo schifati a frasi che, ancora una volta,
calpestano la memoria dei Martiri delle Foibe proprio in vista del Giorno del Ricordo.
A questi pseudo studenti è consentito tutto”.


“Occupare spazi adibiti allo studio e all’erogazione della didattica,
organizzare feste non autorizzate all’interno dei plessi,
aggredire chi secondo loro non è degno di rappresentare gli studenti
ed, infine, beceramente oltraggiare il massacro e l’esodo dei nostri connazionali,
perpetrato per mano dei partigiani titini.
Se da un lato per tutti gli altri studenti vige un regolamento ferreo
che esige la prenotazione preventiva e Qr code per esercitare il proprio diritto allo studio ed alla socialità,
per altro lato a questi è consentito tutto senza conseguenze”.


“Auspichiamo un immediato intervento dell’Università affinché le scritte siano immediatamente rimosse
e sia garantito anche in Facoltà degnamente il ricordo dei Martiri delle Foibe.
Presentato un ordine del giorno per invitare il consiglio comunale
a prendere le distanze da queste scritte vergognose che incitano all’odio e anti italiane.
Assurda infine la chiusura del profilo Instagram di Azione Universitaria,
ed il blocco del profilo Facebook del suo responsabile.


«In seguito alla pubblicazione della fotografia delle scritte campeggianti sui muri dell’Università di Firenze,
proprio in vista del Giorno del Ricordo è stata oscurata la pagina ufficiale su Instragram di Azione Universitaria Firenze».

«Ciò che è accaduto è gravissimo.
Veniamo censurati perché, come da sempre, commemoriamo degnamente il ricordo dei Martiri delle Foibe,
non accettando che possa essere beceramente oltraggiato il massacro e l’esodo dei nostri connazionali,
perpetrato per mano dei titini.
È l’ennesimo affronto alla libertà nei confronti di chi, ogni anno, ricorda i Martiri delle Foibe.
È l’ennesimo affronto alla libertà nei confronti di chi, da sempre, è libero.
È l’ennesimo affronto alla libertà nei confronti di chi, non accetta, e non accetterà mai di adeguarsi al pensiero unico dominante».

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Sondaggio.


Il Movimento Cinquestelle deve rimanere unito ma deve cambiare profondamente.
Lo pensa la maggioranza degli interpellati, il 48 per cento,
del sondaggio realizzato da Swg per il Tg L7.

Per il 33 deve rimanere unito così come è,


Per il 15 è meglio che ci sia una scissione viste le troppe differenze di vedute.

Indifferente o non sa il 4 per cento degli intervistati.


Secondo i dati raccolti dalla società di ricerca

in caso di scissione nel M5s il 75 per cento degli elettori sceglierebbe Conte,

solo il 10 per cento starebbe con Di Maio

mentre il 7 per cento non seguirebbe nessuno dei due.
 
Ma no dai. Facciamo trivellare quelli dell'altra sponda dell'Adriatico
tanto noi cosa ce ne facciamo del gas ?
Intanto i soldi non spendiamoli negli investimenti, nooooo
Molto meglio l'utopica "transizione ecologica" e "l'inclusione".
Sai che ricchezza porteranno agli Italiani...a vagonate.


«Il caro energia costerà in un anno più di tutto il Recovery Plan».
Lo dice chiaramente il ministro della Transizione Economica, Roberto Cingolani,
rilanciando un allarme che agita la politica e le famiglie e le imprese italiane, travolte dal caro bollette.

Dunque, «il cosiddetto piano Marshall non è la soluzione di tutti i nostri mali. Dipende da come sapremo sfruttarlo»,
ha chiarito il ministro, spiegando che «non è tanto la mole finanziaria che deve metterci sull’attenti.
È il fatto che il Pnrr è un piano integrato, che mette insieme diversi pilastri:
digitalizzazione, infrastrutture, transizione ecologica, ricerca, inclusione».


«È molto più di un grande piano industriale, ed è finanziato in parte a fondo perduto e in parte tramite prestiti»,
ha proseguito il titolare della Transizione ecologica, ammettendo in un’intervista a La Stampa di oggi
di essere preoccupato per «il costo dell’energia» e per l’impatto che rischia di avere sul Pnrr.

«Con un debito attorno al 160% del Pil, l’Italia non può sbagliare».

Cingolani quindi ha chiarito che la transizione ecologica si deve affrontare «senza ideologismi»
e «deve essere sostenibile sul piano ambientale e sociale».

L’orizzonte che si è dato è quello del 2030, entro il quale «dobbiamo raddoppiare le nostre fonti rinnovabili».

Ma ci sono da superare aspetti tecnologici e ideologici, fra questi ultimi anche le resistenze al nucleare.

«Non vedo perché l’Italia non debba fare ricerca e sviluppo in questo settore», ha sottolineato.


Dunque, l’Italia si trova in ritardo su un tema cruciale come quello dell’approvvigionamento,
mentre il problema è già esploso drammaticamente.

Anche il ministro per lo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, è intervenuto sulla questione, avvertendo che
«se il governo ha tamponato le ricadute dell’aumento sui consumatori con misure d’emergenza del valore di quasi tre miliardi,
tali interventi di compensazione diverrebbero impossibili ove l’aumento diventasse strutturale».

«Il problema dovrà pertanto essere affrontato con strumenti comuni, in un’ottica di lungo periodo»,
sottolineando però che rispetto al rialzo dei prezzi dell’energia al consumo e per le imprese
«per evitare ricadute sociali negative, la transizione energetica richiederà l’adozione di strumenti di sostegno dei settori energivori e della manifattura europea».


«il problema dell’Italia e dell’Europa è che non è esistita una politica strategica sul fronte energetico».

«Una delle ragioni per le quali Berlusconi fu rimosso, era proprio che aveva garantito,
attraverso i suoi rapporti con la Russia e con la Libia, che l’Italia fosse autonoma nell’approvvigionamento energetico.
Questo altri non lo potevano accettare.
Da allora non c’è stata una politica energetica.
Sicuramente l’Italia può lavorare molto di più sull’estrazione di gas, su questo bisogna chiedere all’Europa di togliere i vincoli;
sicuramente siamo ampiamente forniti di vento e sole, c’è il geotermico, fino ad arrivare al nucleare da fusione,
che è un brevetto sul quale lavora Eni, primo al mondo».


«i rialzi eccessivi del prezzo dell’energia stanno producendo conseguenze drammatiche sulle famiglie e sulle imprese:
sono a rischio migliaia di posti di lavoro e qualche Comune sarà obbligato a diminuire i servizi ai cittadini, c
ome l’illuminazione pubblica o il riscaldamento nelle scuole».

«Bisogna risolvere il problema una volta per tutte perché l’Italia
è il primo importatore di energia del mondo e dipende per il 94% dalle produzioni straniere».

«È indispensabile aumentare la nostra produzione di gas e riprendere la ricerca sul nucleare e sfrutti al meglio gli impianti esistenti come il Tap».

«Questo dimostra quanto sbagliava chi per anni si è opposto alla sua realizzazione
in nome di un ambientalismo del No, un ambientalismo dei divieti davvero superato dalla storia».
 
Sui media si discetta, con gran spreco di parole,
dei rimescolamenti delle alleanze partitiche dopo la rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica.

Come se conoscere cosa-farà-chi
possa essere la soluzione, in positivo, della crisi italiana.

Tempo perso.

La sensazione è che le scelte di oggi tra un anno non avranno alcun senso.

Potremmo trovarci di fronte a uno scenario socio-economico terremotato,
nel quale gli elettori faranno fatica a conferire il mandato ad essere rappresentati all’una o all’altra forza politica.

Verosimilmente, gli italiani si asterranno in massa,
spinti da un inarrestabile desiderio di sfiduciare in toto la classe dirigente espressa dai partiti.

Prossimi alla fine la pandemia, cosa può innescare il panico?


È bizzarro che il vituperato Paolo Savona,
che osò mettere in discussione il “Verbo” comunitario dell’europeismo fideistico, avesse visto giusto.


L’ipotesi che sul sistema economico e finanziario dell’Unione potesse abbattersi, inaspettato, il temuto “cigno nero”,
non era la maledizione di un fanatico menagramo
ma il crudo disvelamento della fallacia di un impianto politico sovranazionale costruito su fragili fondamenta:

l’Unione europea, il gigante dai piedi d’argilla.

Sembrava impossibile, eppure siamo alla tempesta perfetta
che può distruggere secoli di sforzi e di lotte per edificare società industriali evolute e capaci di generare benessere diffuso.

Il “cigno nero” del nostro tempo è l’impazzimento del mercato delle materie prime energetiche
che incrocia l’onda montante dell’inflazione.

I costi della bolletta di gas e di energia elettrica schizzati alle stelle,
se da un lato incidono sul potere d’acquisto dei salari e, a cascata, sull’attitudine al consumo delle famiglie,
dal lato delle imprese suonano la campana a morto.

Un apparato manufatturiero come il nostro, altamente energivoro, rischia di saltare definitivamente.


L’Ufficio studi della Cgia di Mestre ha stimato che, nel 2022,
per le famiglie e le imprese l’aumento del prezzo delle tariffe energetiche sarà pari a 89,7 miliardi di euro

(dei quali 58,9 miliardi in conto alle imprese).

Sono numeri insostenibili.

E non è vero che si sia al cospetto di una fase acuta ma breve della congiuntura economica.

Le previsioni dicono che, al netto di un lieve ribasso fisiologico nel periodo estivo,
i costi resteranno alti per un tempo prolungato.


E non si dica che per questo disastro l’Unione europea non abbia colpe.

Le ha, eccome.

Le ha per ciò che fa di sbagliato.

E le ha per ciò che omette di fare.


Di sbagliato c’è il metodo e la tempistica con cui Bruxelles
ha pensato d’imporre la transizione ecologica al sistema produttivo a energia fossile.

Una follia a beneficio di pochi e a danno di molti.



Il sacro furore per la difesa dell’ambiente
ha provocato la fuga dei grandi gruppi privati del settore degli idrocarburi.

Le major petrolifere stanno abbandonando gli investimenti upstream
nonostante la domanda globale di gas lo scorso anno avesse raggiunto i quattromila miliardi di metri cubi
con una previsione d’incremento medio del 6 per cento fino al 2024 (fonte: Agenzia internazionale dell’energia).


Gli investitori, in particolare i fondi che sono presenti negli azionariati delle multinazionali degli idrocarburi,
continuano a piantare paletti all’utilizzo di fonti energetiche non rinnovabili.


Ciò determina la riduzione dell’offerta di prodotto disponibile a fronte della crescita della domanda.



È così che i prezzi schizzano in alto.
 
Ma gli aumenti hanno cause anche geopolitiche.

La turbolenza sul fronte russo-ucraino non aiuta.

Come non aiuta il comportamento insolitamente provocatorio di Washington,
che si comporta come se volesse a tutti i costi la guerra con la Russia ai confini orientali d’Europa.

Visto che parliamo di casa nostra, l’Unione dovrebbe dire la sua con una voce sola.


Per la soluzione della crisi in atto, riprendere con forza e convinzione la via diplomatica con il gigante russo,
che garantisce ai Paesi dell’Unione il 40 per cento del loro fabbisogno energetico, sarebbe la cosa giusta da fare.


Il problema è che l’Europa unita non esiste.


Ci sono in circolazione dei modesti leader nazionali,
a cominciare dal francese Emmanuel Macron,
che provano a giocare per proprio conto al tavolo delle grandi potenze.


E l’Italia?

Una telefonata di Mario Draghi a Vladimir Putin

per assicurarsi che l’orso dell’Est non ci rifili, nella confusione,

una zampata che potrebbe fare molto male,

è stata la nostra grande mossa di politica estera.



Atteso che da Bruxelles,
dove la Commissione europea ha rinunciato in partenza a implementare una policy comune di stoccaggio delle riserve di gas,
non giungerà alcun significativo aiuto per tirarci fuori dai guai,
domandiamoci se il Governo Draghi sarà in grado di mettere in salvo le imprese e le famiglie italiane.


La strada intrapresa da Palazzo Chigi per fronteggiare il rincaro dell’energia è di corto respiro.
Gli scostamenti di bilancio finora approvati non risolvono il problema alla lunga distanza
ed, allo stesso tempo, ampliano il già colossale debito pubblico.

Occorrerebbe, invece, che il Governo si dotasse di una strategia articolata su tre livelli temporali:

di breve, medio e lungo termine.

Ma bisognerebbe "far funzionare i cervello".


Di base, le forze politiche di maggioranza dovrebbero avere una visione condivisa del futuro di questo Paese.
In particolare, sul medio-lungo termine dovrebbero concentrare gli sforzi per riavviare il processo di autosufficienza energetica
con la diversificazione delle fonti di approvvigionamento.



Ciò significa:

sviluppare la strategia di estrazione del gas dal sottosuolo nazionale e dal mare;

rimettere mano al piano di utilizzo del nucleare di ultima generazione cosiddetto “pulito”;

accrescere il ricorso alle centrali a carbone non ancora dismesse;

irrobustire il ciclo di smaltimento termico dei rifiuti solidi per la creazione di energia.


Perché il vento e il sole al momento non sono minimamente in grado di soddisfare la domanda energetica interna.



Per l’immediato, bisognerebbe tagliare integralmente il costo degli oneri di sistema
ed intervenire a calmierare il prezzo dell’energia con il ricorso al sistema tariffario determinato, in via autoritativa, dal Governo.

Siamo in costanza di stato d’emergenza?

Ed allora il decisore politico agisca.

Si rispolveri il vecchio Comitato interministeriale prezzi (Cip)
per contenere gli aumenti del costo dell’energia a livelli sostenibili
rispetto a quelli dei Paesi europei concorrenti (Germania, Francia, Spagna).

Non ha senso pensare di sottrarre gli extra-profitti alle aziende distributrici dell’energia elettrica e del gas
quando lo Stato ha il potere, in via straordinaria, di fissare a monte il prezzo al consumo.


Ma come fare tutto questo se la politica è ostaggio dell’infantilismo ideologico dei Cinque Stelle
e della sinistra camaleontica che all’occasione si tinge di verde?



I cittadini dovrebbero ricordarsene quando si recheranno alle urne per rinnovare il Parlamento.


Fino a qualche giorno fa abbiamo celebrato l’onniscienza di Mario Draghi.

Adesso cominciamo a dubitare della sua infallibilità.

Se il premier non dovesse riuscire a intervenire con efficacia sulla crisi energetica,
c’è la possibilità che nel 2023 al posto delle urne vi saranno le macerie.

Non sappiamo quanto lo stesso Draghi ne sia consapevole.


E non è che abbiamo davanti molto tempo per scoprirlo.
 

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