Val
Torniamo alla LIRA
“To live in a land where justice is a game” (Bob Dylan, “Hurricane”, 1976).
Non si può che morire di vergogna, per il fatto di vivere in una terra dove, ormai, la giustizia è un gioco.
E dove “they try to turn a man into a mouse”, provano a trasformare l’essere umano in topo:
non Rubin Carter, il famoso pugile finito in carcere, ma proprio tutti.
Il rumore di ceppi e catene si è fatto assordante,
lungo i meandri stucchevoli nella neolingua sanitaria
che pretende di assoggettare i cervelli e i corpi,
sottendendo la fine – sostanziale – di uno Stato di diritto che invece esiste ancora,
e per il momento arma la mano di centinaia di avvocati combattivi.
Sopravvive tuttora la Costituzione entrata in vigore nel 1948,
benché amputata brutalmente una decina d’anni fa con l’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio.
Una Carta ora ritoccata anche con l’ambigua indicazione, teoricamente nobile ma contigua al verbo “gretino”,
sulla tutela dell’ambiente (possibile alibi per chissà quali altre torsioni, future o imminenti).
Quanto è lontana, da tutto questo, la remotissima America in cui un cantautore carismatico – con una semplice canzone di denuncia –
poteva contribuire a restituire la libertà a un atleta finito in cella in quanto afroamericano, per un rigurgito tardivo di razzismo?
A contendersi la Casa Bianca, all’epoca, erano Gerald Ford e Jimmy Carter.
Oggi il mondo sa che l’inquilino di Pennsylvania Avenue è un anziano diroccato e forse mentalmente presente solo a intermittenza.
Un ometto debolissimo, piazzato su quella poltrona da maneggi informatici scandalosamente enormi,
su cui le autorità giudiziarie non hanno mai voluto fare piena luce.
Un presidente facente funzioni, interamente manovrato da altri, cui oggi tocca misurarsi – in mezzo a gaffe ormai leggendarie –
con un personaggio come Vladimir Putin, tra praterie di missili puntati.
Il vecchio film, la guerra, sembra un fantasma che ritorna, un vampiro inestinto:
solo che stavolta il cittadino medio non riesce ad afferrarne neppure il sapore più superficiale,
preso com’è da tutti gli altri assilli che, da due anni, lo inchiodano al baratro di precarietà nel quale la vita di tutti è letteralmente precipitata, in Occidente.
Lo stesso Bob Dylan, in pieno terrore pandemico (marzo 2020) ha voluto mettere l’accento sul “murder most foul”,
il più disgustoso degli omicidi – quello di John Fitzgerald Kennedy – come sciagurato evento-chiave della seconda parte del secolo,
conclusosi davvero solo l’11 settembre 2001 con la sua coda di orrori:
l’Iraq e l’Afghanistan,
le bombe al fosforo sui civili di Falluja e su quelli di Gaza,
Obama e le altre carneficine “regionali” (dalla Libia alla Siria),
i tagliagole dell’Isis in azione in Medio Oriente e nelle capitali europee.
E’ durata pochissimo, la ricreazione, perché sulla scena ha fatto irruzione il coronavirus-chimera di Wuhan:
la globalizzazione della schiavitù psicologica e non solo, con il suo corredo di strumentazioni distopiche.
Il “false prophet” dell’ultimo Dylan è uno scheletro che brandisce una siringa,
suonando alla porta di casa come per consegnare un regalo ben impacchettato.
Nel disco (“Rough and rowdy ways”) manca solo l’estremo omaggio, il corollario:
la schedatura definitiva mediante pass vaccinale, e senza neppure la cortesia di un vero vaccino.
Il mistero più fitto continua ad aleggiare sui sieri genici C-19:
graziosamente, in prima battuta, Pfizer aveva provato a sostenere che sarebbe stato possibile rivelare la loro reale composizione soltanto fra 70 anni.
Nel frattempo, le agenzie europee della farmacovigilanza parlano di oltre 30.000 morti sospette
e 3 milioni di persone finite nei guai dopo l’inoculo:
sembra il bilancio di una guerra, non certo quello di una campagna vaccinale.
Nonostante ciò, probabilmente, sfugge la vera ragione che motiva i renitenti, che sono milioni:
a farli desistere dal subire l’iniezione è essenzialmente l’atteggiamento ricattatorio di un potere che si è macchiato di un crimine gravissimo,
rifiutandosi ostinatamente di approntare terapie efficaci, sollecitamente segnalate dai medici.
Non si può che morire di vergogna, per il fatto di vivere in una terra dove, ormai, la giustizia è un gioco.
E dove “they try to turn a man into a mouse”, provano a trasformare l’essere umano in topo:
non Rubin Carter, il famoso pugile finito in carcere, ma proprio tutti.
Il rumore di ceppi e catene si è fatto assordante,
lungo i meandri stucchevoli nella neolingua sanitaria
che pretende di assoggettare i cervelli e i corpi,
sottendendo la fine – sostanziale – di uno Stato di diritto che invece esiste ancora,
e per il momento arma la mano di centinaia di avvocati combattivi.
Sopravvive tuttora la Costituzione entrata in vigore nel 1948,
benché amputata brutalmente una decina d’anni fa con l’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio.
Una Carta ora ritoccata anche con l’ambigua indicazione, teoricamente nobile ma contigua al verbo “gretino”,
sulla tutela dell’ambiente (possibile alibi per chissà quali altre torsioni, future o imminenti).
Quanto è lontana, da tutto questo, la remotissima America in cui un cantautore carismatico – con una semplice canzone di denuncia –
poteva contribuire a restituire la libertà a un atleta finito in cella in quanto afroamericano, per un rigurgito tardivo di razzismo?
A contendersi la Casa Bianca, all’epoca, erano Gerald Ford e Jimmy Carter.
Oggi il mondo sa che l’inquilino di Pennsylvania Avenue è un anziano diroccato e forse mentalmente presente solo a intermittenza.
Un ometto debolissimo, piazzato su quella poltrona da maneggi informatici scandalosamente enormi,
su cui le autorità giudiziarie non hanno mai voluto fare piena luce.
Un presidente facente funzioni, interamente manovrato da altri, cui oggi tocca misurarsi – in mezzo a gaffe ormai leggendarie –
con un personaggio come Vladimir Putin, tra praterie di missili puntati.
Il vecchio film, la guerra, sembra un fantasma che ritorna, un vampiro inestinto:
solo che stavolta il cittadino medio non riesce ad afferrarne neppure il sapore più superficiale,
preso com’è da tutti gli altri assilli che, da due anni, lo inchiodano al baratro di precarietà nel quale la vita di tutti è letteralmente precipitata, in Occidente.
Lo stesso Bob Dylan, in pieno terrore pandemico (marzo 2020) ha voluto mettere l’accento sul “murder most foul”,
il più disgustoso degli omicidi – quello di John Fitzgerald Kennedy – come sciagurato evento-chiave della seconda parte del secolo,
conclusosi davvero solo l’11 settembre 2001 con la sua coda di orrori:
l’Iraq e l’Afghanistan,
le bombe al fosforo sui civili di Falluja e su quelli di Gaza,
Obama e le altre carneficine “regionali” (dalla Libia alla Siria),
i tagliagole dell’Isis in azione in Medio Oriente e nelle capitali europee.
E’ durata pochissimo, la ricreazione, perché sulla scena ha fatto irruzione il coronavirus-chimera di Wuhan:
la globalizzazione della schiavitù psicologica e non solo, con il suo corredo di strumentazioni distopiche.
Il “false prophet” dell’ultimo Dylan è uno scheletro che brandisce una siringa,
suonando alla porta di casa come per consegnare un regalo ben impacchettato.
Nel disco (“Rough and rowdy ways”) manca solo l’estremo omaggio, il corollario:
la schedatura definitiva mediante pass vaccinale, e senza neppure la cortesia di un vero vaccino.
Il mistero più fitto continua ad aleggiare sui sieri genici C-19:
graziosamente, in prima battuta, Pfizer aveva provato a sostenere che sarebbe stato possibile rivelare la loro reale composizione soltanto fra 70 anni.
Nel frattempo, le agenzie europee della farmacovigilanza parlano di oltre 30.000 morti sospette
e 3 milioni di persone finite nei guai dopo l’inoculo:
sembra il bilancio di una guerra, non certo quello di una campagna vaccinale.
Nonostante ciò, probabilmente, sfugge la vera ragione che motiva i renitenti, che sono milioni:
a farli desistere dal subire l’iniezione è essenzialmente l’atteggiamento ricattatorio di un potere che si è macchiato di un crimine gravissimo,
rifiutandosi ostinatamente di approntare terapie efficaci, sollecitamente segnalate dai medici.